VIVERE DA SOLI A 20 ANNI CON IL COVID-19

Immagina. Hai 23 anni. Sei fuori sede. Vivi da sola con la tua coinquilina. Frequenti l’università a Verona. Tutto è bello, esci e studi (quando capita).

Purtroppo, però, hai anche scoperto che oltre ad avere 23 anni hai anche il Covid-19 e, ancora purtroppo, io non l’ho solo immaginato: l’ho vissuto. Di colpo vivere da sola non è così bello ed essere lontana dalla tua città natale non ti fa sentire libera come al solito.

“Vivo da sola!” inizia a diventare “vivo da sola…”.

I primi 3 giorni la situazione è così surreale che neanche te ne rendi conto, probabilmente anche perché gli svenimenti e la febbre a 40 non ti permettono di essere lucida. Proprio tu, quella convinta che “tanto ormai lo prendiamo da asintomatici”, hai tutti i sintomi pensabili. Solo gusto e olfatto ancora si difendono bene, permettendoti di svolgere l’attività principale della tua quarantena: mangiare.

Il ritmo delle giornate è scandito dalla sveglia alle 7.00, dalle medicine, dallo studio per gli esami (perchè covid e tempismo vanno a braccetto) e da Martina, il tuo angelo, che fa la spesa e ti prepara i pasti.

Inizi a chiederti “sarebbe stata la stessa cosa se fossi stata a casa mia?”, quindi eccomi pronta a spiegare che cosa l’abbinata fuorisede-covid significhi.

Il primo ostacolo con cui bisogna fare i conti sono gli ambienti angusti: un solo bagno, una cucina condivisa e nessun spazio esterno che sia un balcone, un terrazzo, un buco che ti permetta di respirare.

Armarsi di igienizzante, detersivo, disinfettante, scottex e guanti, dopo di che inizia il mantra. Usi il bagno? Igienizza. In cucina? Non andare. Tocchi una maniglia? Passa il disinfettante. Uscire dalla tua stanza? Assolutamente no. A casa non sarebbe stato così, almeno il terrazzo ti avrebbe dato una parvenza di libertà.

E poi fa caldo, caldo da morire. Nella tua stanza non gira un filo d’aria e non puoi neanche andare in aula studio per usufruire dell’aria condizionata. Le alti temperature ti rendono ancora più nervosa di quanto già non sei e ti senti costretta a prendere in prestito il ventilatore della tua coinquilina.

Ovviamente sei una studentessa universitaria, quindi devi fare i conti con tutti i “se vai alla feste per forza che ti ammali”, “vedi a frequentare posti affollati” e “così impari a sottovalutare la situazione”. Magari mi fossi ammalata divertendomi, la verità è ben diversa. Il Covid l’ho preso in treno, mentre tornavo a Verona, perché quasi nessuno indossava la mascherina correttamente.

I primi giorni di clausura, venerdì, sabato e domenica, passano con il tempo che scorre a una strana velocità e i sintomi sono ancora troppo forti per far prevalere la noia.

Allo scoccare del quarto giorno la febbre lascia il posto all’emicrania e alla tosse, rendendoti più viva e consapevole. Ti rendi quindi sfortunatamente conto di una cosa: ti stai annoiando, anche tanto.

Martina torna a Udine, sui gruppi WhatsApp sei costretta continuamente a rifiutare gli inviti agli aperitivi o le uscite a cena con gli amici. Continui a scrivere “non posso ho il covid” e, a poco a poco, la noia viene sostituita da una sensazione peggiore: la solitudine. Ti senti lontana da casa, lontana dalla tua famiglia e dalle sue cure amorevoli.

Prima di quest’anno non avevi mai vissuto da sola, non eri stata lontana da casa per più di due settimane e di colpo ti trovi a Verona, ammalata e anche un po’ preoccupata.

Come ci si sente quindi da fuori sede positivi? Un po’ soli, un po’ annoiati e anche un po’ arrabbiati. Ti dicono “hai fatto due mesi di quarantena, cosa vuoi che sia” e hanno ragione. Tu ti senti però di star perdendo tempo, di essere sfortunata. Non hai preso il covid a dicembre e lo devi prendere a giugno? Una settimana prima del tuo, ora improbabile, ritorno a casa? Sarà la punizione dell’universo per qualcosa?

Un ulteriore tasto dolente si aggiunge alla lista: gli esami. D’altronde le cose o si fanno bene o non si fanno e hai preso il Covid giusto nella settimana della sessione. Tra moduli e certificati che attestino la tua positività l’ansia che i professori non rispondano in tempo a tutte le e-mail con cui li hai intasati non fa altro che crescere. Ci manca solo che ti salti il programma che avevi fatto, costringendoti a posticipare il mare.

Finalmente la risposta, fortunatamente positiva (ironia della sorte), arriva. Ora però? Come si studia quando si è malati?  Il fallimento non è contemplato: hai richiesto una modalità straordinaria d’esame unicamente per te. Allora ti metti sui libri, d’altronde la paura è il metodo più efficace per spronare no? L’organizzazione è semplice, consiste in: sveglia presto, medicinali per annientare momentaneamente i sintomi, studio, pranzo Deliveroo fuori dalla porta, farmaci, studio e cena. Il tutto condito da film e serie tv che possano in quale modo distrarre dalla situazione.

Stranamente e contro ogni altra previsione, i primi risultati arrivano e la paura lascia spazio alla soddisfazione.

In tutto questo voi direte “un po’ drammatica la ragazza” e sapete cosa vi dico? Assolutamente sì. Avete proprio ragione. È proprio questo il punto, sono da sola e le uniche interazioni sociali le ho tramite WhatsApp e Facetime, sia lodata la tecnologia.

Pensate che ieri mi sono commossa, perché il cane di una mia compagna universitaria soffre di attacchi epilettici. I primi cenni di cedimento ci sono.

Una cosa di cui mi sono resa conto però e di cui non mi vergogno è che puoi avere 20,30 o 40 anni, ma quando starai male vorrai sempre la tua famiglia.

Per mia fortuna e per la fortuna di tutte le persone che mi stanno accanto che non mi sopportano più il tampone di controllo è domenica. Sperò in un esito positivo…o sarebbe meglio dire negativo?

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