Si parte sempre da Giovanni Gentile per annodare Sgalambro, Junger e Camus  nella pedagogia del pensiero forte

È Gentile che rende tutto filosofia. Ciò che resta fondamentale è un "gioco" tra il pensato e il pensare. Una forte epistemologia del pensiero che è manifestazione tra il logos e il divenire, nella pedagogia del pensiero forte che lega la ricerca della libertà a quella della verità

Uno Stato etico può essere uno stato liberista o liberale? O è l’utopia che entra nella storia. Ci sono principi di fondo che trovano in Kant una riflessione che va oltre una epistemologia della speculazione filosofica? Ciò che, comunque, resta fondamentale è un “gioco” tra il pensato e il pensare. Una forte epistemologia del pensiero che è manifestazione tra il logos e il divenire. 

Se Giovanni Gentile resta un punto di riferimento in una ermeneutica della fenomenologia dello spirito tutto ciò che giungerà dopo da Abbagnano in poi sarà stoicismo da idealismo e prassi. Gentile va oltre perché è l’etica che prende il sopravvento in una religioso modello spirituale in cui l’atto in divenire è una griglia nel tempo che sarà ripreso da Jaspers e Heidigger. 

Quale ruolo potrà avere Manlio Sgalambro in tutto ciò? È certo che anche in Sgalambro ha reciso ogni forma di Illuminismo anche se insiste un paganesimo metafisico. L’intreccio dell’atto del pensare con il pensiero pensato è funzione immanente. Permanente. 

Non solo Sgalambro attinge a Gentile come superamento di un sentiero debole. Tra i due si interfaccia Junger con il concetto asimmetrico del concetto di lavoro. 

Gentile ha sempre una marcia in più in quanto nel suo pensato-pensiero c’è la “morale”, ovvero una funzione pedagogica che diventa l’espressione dell’uomo come una epistemologia del conoscere nell’atto in divenire. L’età dello spirito non è una tecnica ermeneutica. È la coscienza della conoscenza.  

Se Junger dirà:
“Il Ribelle deve possedere due qualità. Non si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore né con i mezzi della propaganda né con la forza. Il Ribelle inoltre è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento”, in modo “ostinato e contrario” trovare in Camus è nel suo uomo in rivolta, la tentazione della trasformazione di un’etica in una morale. 

È Gentile che rende tutto filosofia: “Ma quello che diciamo praticamente morale, non è altro da quello che teoricamente diciamo filosofia. La distinzione deriva, a nostro modo di vedere, dal concepire astrattamente il bene, che è oggetto della morale, e la verità, che è oggetto della filosofia”. Forse è qui che Sgalambro che potenzia la sua potenza in volontà riagganciandisi naturalmente a Nietzsche. 

Se da un versante insiste il dolore dall’altro il tragico. È come se dicessimo una dimensione dell’ottimismo con Gentile e una visione del pessimismo con ciò che diventerà esistenziale. Alla base c’è il pensato gentiliano: “Il motivo di questa vera filosofia è che l’oggetto dello spirito, la verità è lo spirito stesso: l’immanenza, secondo la terminologia modernistica. Questo è appunto il principio della moderna filosofia da Cartesio in qua: e il Blondel ha creduto di dover partire di lì per rinnovare nell’apologetica quello che Tommaso esaltava come il modus antiquorum doctorum. Il metodo già l’aveva additato Agostino e, per dir la verità, prima di tutti Plotino”. 

Ancora una volta intorno a questa tradizione in divenire, Sgalambro ha trovato uno scoglio. Ma resta un dato fondamentale. Il pensiero debole resta una etichetta. Ovvero senza il pensiero forte non si dà filosofia. E si ritorna ancora a Giovanni Gentile. L’atto puro come rivelazione in una genesi che diventa struttura della società.  Si parte sempre da Giovanni Gentile per annodare Sgalambro, Junger e Camus  nella pedagogia del pensiero forte che lega la ricerca della libertà a quella della verità.

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*Già Cultrice di Storia del diritto Italiano, Università degli studi di Bari, Micol Bruni, nata in Puglia, si è laureata in Giurisprudenza con una tesi dal titolo Gli Arbereshe tra storia e diritto. Studiosa degli aspetti storici delle comunità italo-albanesi, ha condotto ricerche riferite alla letteratura meridionale ed ai viaggiatori stranieri in Italia. Ha curato volumi dedicati ai Beni Culturali ed ha partecipato a studi monografici dedicati a Giuseppe Battista, Carlo Levi, Cesare Pavese, Sandro Penna. Ha pubblicato un volume dal titolo “Poesia e poeti nella metafora” (2007). Insieme al padre Pierfranco ha curato la stesura del testo pubblicato dalla Nemapress ed intitolato “Elio Vittorini – La sfida dello scrittore” (Collana Saggi, 2009). È Presidente dell’Istituto di Ricerca per l’Arte e la Letteratura (I.R.A.L.) ed ha curato, in qualità di presidente e coordinatrice scientifica, la pubblicazione di testi riguardanti la letteratura del Novecento con riferimento a Gabriele D’Annunzio. Ha partecipato a trasmissioni della RAI su temi inerenti la valorizzazione delle culture antropologiche.

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