Racconti in quarantena: IL CARDINALE

di Mario Narducci - giornalista scrittore

Aveva quarantott’anni quando Pio XII lo nominò Arcivescovo dell’Aquila. Era il 29 marzo del 1941. Nove mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Figlio di modesti artigiani ne tradiva le origini per portamento ieratico e linguaggio accurato, ma non per nobiltà d’animo e sentimento partecipe delle pene degli ultimi. Pio XI, che lo aveva voluto segretario particolare a Milano se lo portò a Roma una volta eletto Papa e lo tenne con sé fino alla morte. Era alto nella persona, magro, bello come un dio, lo sguardo penetrante, il sorriso disteso sul volto in un velo di letizia accattivante.

 

Quando nel lungo strascico retto dal chierico caudatario entrava in cattedrale, avvolto nell’ermellino, tra due ali folte di fedeli rapiti nella navata centrale e due schiere di seminaristi nei banchi dell’abside, già s’avvertiva quella solennità che diventava trionfante nella vestitura pontificale attorno all’altar maggiore, che si concludeva con la calzatura dei guanti bianchi, della lunga mitria e l’impugnatura del pastorale sulla Cattedra dalla quale, con voce ferma e suadente predicava. Poco più di un decennio, verrà il Concilio e si spoglierà di tutto senza rimpianti, per ridursi all’essenziale anche da cardinale, quando avvolto di nero, ritto nella persona, attraverserà Piazza San Pietro per stare accanto al Papa.

 

Via Rusticucci sta al limitare di Via della Conciliazione, là dove s’apre piazza Pio XII e principia la maestosità del colonnato del Bernini, sullo sfondo di piazza San Pietro. Un solo portone e, all’ultimo piano, stava l’abitazione del cardinale decano Carlo Confalonieri. Sotto il breve portico del palazzo, ancora oggi è la Sala Stampa del Vaticano. Appena un avvenimento di rilievo segnava la vita della Chiesa, più di un giornalista saliva all’appartamento del Cardinale per sentirne il parere. Il portinaio li conosceva tutti, non occorreva farsi annunziare.

 

Alla morte di Paolo VI, salii quelle scale anch’io. Bastò solo che dicessi il mio cognome alla buona suora che aprì l’uscio, e subito il Porporato apparve nello studio carico di ricordi del suo episcopato aquilano. Il portinaio me lo aveva detto: quando il Cardinale sente il nome dell’Aquila, spalanca le braccia e gli si apre il cuore. Confalonieri era stato Arcivescovo del Capoluogo abruzzese fino al 1950, e in “Decennio aquilano” aveva narrato l’esperienza pastorale di un Episcopato che gli era stato conferito da Pio XII proprio per questa Città, che per tutta la vita chiamò sua sposa.

 

Richiamato a Roma a dirigere la Congregazione per i vescovi, passando per quella dei Seminari e delle Università Pontificie, fu nominato cardinale da Papa Giovanni XXIII al suo primo Concistoro e in questa veste, mentre si caricava d’anni, vide via via affacciarsi alla Loggia della Basilica altri tre Papi: Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Quando salii le scale del suo appartamento era stato appena eletto papa il Cardinale Luciani, Patriarca di Venezia. Mi abbracciò, ricordava tutto della mia famiglia: mio padre che portava il suo stesso nome di battesimo, mio fratello Vittorio che ebbe in seminario e che volle ordinare Prete nella Basilica mariana dei Parioli, mio zio don Vincenzo, parroco a Vigliano d’Abruzzo che, malato, sostituì egli stesso in una messa Pasquale ed il cui apostolato ricorda più volte nelle sue memorie.

 

Da allora, in più d’una occasione tornai a visitarlo e ad intervistarlo: con mia moglie, con mio padre, con mio fratello padre Vittorio al quale, nel discorsetto di consacrazione, disse solo queste poche parole: “Ricordi tuo zio prete don Vincenzo? Ricordi che santo prete che era? L’esempio lo hai in casa, non hai bisogno di cercarlo altrove”.

 

Da trentaquattro anni su Via Rusticucci è calato il silenzio. Scarno nel volto, sempre altissimo e ieratico, il Cardinale Confalonieri ha lasciato anch’egli questo mondo che gli appariva sempre più estraneo e lontano. “Siamo ancora qui – disse quella volta a mio padre – la vita è davvero un dono di Dio; ma mi sento un sopravvissuto, specie ad ogni evento luttuoso che mi porta via amici e persone care”.

 

Potrei parlare in tanti modi dell’Arcivescovo che nella Parrocchia di Santa Giusta mi amministrò la Prima Comunione e la Cresima, ma l’onda dei ricordi mi travolge. In una delle numerose visite all’Aquila da cardinale, una piccola donna ruppe le transenne di una piazza Duomo gremita di fedeli e si inginocchiò ai suoi piedi gridando come la donna del Vangelo: “Beata la mamma che ti ha generato”. C’era, in quelle parole, tutto l’amore della città che lui chiamava “santa” per l’Arcivescovo mai dimenticato, per il Pastore che la salvò dalla distruzione bellica; che pianse sui suoi giovani Nove Martiripapa Celestino V, alla cui prima maschera volle prestare il proprio volto, del beato Vincenzo dall’Aquila e della beata Cristina da Lucoli.

 

Poi lo ricordo a Sotto il Monte, nella visita di Giovanni Paolo II ai luoghi del Papa Buono. Una giornata dal tempo inclemente. Mentre Wojtyla parlava esaltando il valore della vita e il cielo sembrava dovesse venir giù tutto in pioggia e vento impetuosi, il cardinale non si mosse dal suo fianco, al contrario di buona parte del clero e delle autorità che correva al riparo. E lo ricordo anche a Desio, per la visita di Giovanni Paolo II ai luoghi di Pio XI. Incontenibile l’entusiasmo della gente nei suoi confronti: fu la festa di Papa Ratti, ma anche la sua festa. E infine nel pellegrinaggio a Fatima di Wojtyla, che lo volle con sé quale segno di gratitudine (ogni giorno si era recato al Gemelli, dopo l’attentato).

 

Ero sotto il portico in attesa della messa solenne del Papa quando lui passò, solo, ritto nella persona, l’andatura ferma. Fu un incontro affettuoso che una foto mi ravviva ancora. Papa Wojtyla, che ne celebrò i funerali, volle sottolinearne la figura di cardinale fedele alla Chiesa. Della quale mai parlò se non per dirne il suo amore. Alpinista come Pio XI, la prima cosa che volle fare appena eletto Arcivescovo dell’Aquila, fu ascendere una vetta del Gran Sasso. Quella cima oggi porta il suo nome e ne tramanda per sempre la memoria.

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""Mario Narducci è nato nel 1938 a L'Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest'ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell'ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell'anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. E' presidente dell'Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L'Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. E' componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l'altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L'Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L'Aquila).  

 

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