Covid e migranti: il Tribunale di Milano e il caos giornalistico sulle sentenze “Covid”

I giudici di Milano propongono il riconoscimento della protezione umanitaria tenendo in considerazione anche la situazione sanitaria nel Paese di origine. Il populismo giornalistico si scaglia contro di loro

Nelle giornate prima di Natale, la Sezione Specializzata di Milano (una parte del Tribunale Ordinario dedicata alle materie della protezione internazionale, dell’immigrazione e della cittadinanza, istituita nel 2017) ha proposto un particolare orientamento che tiene in considerazione, rispetto al caso specifico, anche la pandemia e la situazione sanitaria nel Paese di origine del richiedente.

Poiché negli ultimi giorni si è assistito a una marea di articoli di giornali con orientamenti dichiaratamente anti migranti o semplicemente populisti, è bene fare chiarezza sulla questione e non etichettare immediatamente un orientamento (che comunque rimane tale, come meglio si spiegherà) come pro migranti o anti italiano, ma tenendo in considerazione tutti gli elementi della notizia, senza stressarne per interessi personali solamente alcuni.

In primo luogo torniamo sulla protezione umanitaria. In molti altri articoli si è avuto modo di analizzare questo istituto, abrogato dal Decreto “Salvini” nell’ottobre 2018. Per comodità si riportano i tratti fondamentali della stessa. Innanzitutto essa è stata disciplinata da sempre (1998) dall’art.5 co. 6 del d.lgs. 286/98 (il Testo Unico sull’Immigrazione). La ragione per la quale il legislatore l’ha introdotta era per rispettare gli obblighi internazionali e costituzionali a cui l’Italia è vincolata e per garantire la tutela di situazioni non rientranti nel canonico diritto d’asilo. Si parla, quindi, del diritto alla vita privata e familiare, alla tutela da situazioni di particolare vulnerabilità e, in generale, a un bilanciamento tra la situazione personale nel proprio Paese di origine e quella in Italia. Dunque diversi fattori da tenere in considerazione, come specificato da una sentenza della Cassazione del 2018 (la 4455) che per descrivere questo bilanciamento ha precisato che non è sufficiente avere un contratto di lavoro in Italia, ma che servono anche altre caratteristiche sia sotto il profilo dell’integrazione sia rispetto alla situazione del Paese di origine (violazione dei diritti umani) sia rispetto alla condizione personale del richiedente asilo (particolari vulnerabilità, patologie, etc).

Questi ultimi due profili (situazione del Paese di origine e condizione personale) sono interessati dalle sentenze del Tribunale meneghino. Come premessa si ricorda che tali sentenze riguardano casi precedenti all’ottobre 2018, quindi all’abrogazione della protezione umanitaria (oggi parzialmente reinserita attraverso il decreto legge 130/2020). Dunque, è bene tenerlo in considerazione, queste sentenze non potranno avere luogo rispetto ai casi successivi al 5 ottobre 2018, ovvero avranno una portata abbastanza limitata che non giustifica il polverone mediatico e gli attacchi resi da determinate correnti giornalistiche.

Inoltre, quel che più preme sottolineare è che, come espressamente indicato dagli stessi giudici nell’intervista al collega Ferrarella del Corriere della Sera, la pandemia e il rischio Covid vengono tenuti in considerazione come elementi che possono interessare la valutazione sul Paese di origine e la condizione personale del richiedente, ma sempre secondo una considerazione caso per caso. Quindi non vi sono assolutamente automatismi come potrebbero far credere certe notizie. D’altronde è tutta la materia della protezione internazionale ad essere, chi la conosce anche un minimo lo sa, improntata sull’analisi del singolo caso concreto. I pochi casi in cui la situazione soggettiva (personale) del richiedente asilo rileva in maniera inferiore possono essere solo quelli caratterizzati da gravi contesti di conflitti armati dalla violenza indicibile (per esempio, la Siria, ma comunque anche in questo caso si tiene in considerazione la zona di origine del richiedente ed altri parametri, non essendo affatto automatico il riconoscimento della protezione sussidiaria). In tali casi più è efferato e diffuso il conflitto, meno sarà rilevante la condizione personale del richiedente asilo.

Detto ciò, è importante evidenziare un altro tratto saliente che caratterizza le cosiddette sentenze “Covid”. Infatti, gli stessi giudici e anche il Corriere evidenziano come bisogni (o bisogna, Borisianamente parlando) avere soddisfatti una serie di indicatori dell’Inform Epidemic Global Risk Index (identificati nel numero di 100) che tengono in considerazione sia l’impatto della pandemia sul territorio di origine del richiedente sia il rischio che il richiedente, già identificato vulnerabile, possa subire un ulteriore aggravamento delle proprie condizioni a causa, per esempio, della scarsità di risorse sanitarie (pochi ospedali o respiratori o posti letto), dall’insicurezza alimentare, da disordini sociali, etc. Dunque il risultato finale di tale valutazione, per veder riconosciuta la protezione umanitaria, è quello di un richiedente che, tenuto conto di tutti gli elementi sopra indicati, in caso di rimpatrio rischierebbe di sprofondare in condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo (vita, famiglia, salute) dei diritti umani anche a causa della situazione di pandemia che imperversa nel proprio Paese. Quindi, in concreto, una persona già fragile di suo per motivi di salute che dovesse rientrare in Bangladesh dove vi sono 733 posti in terapia intensiva e 1.800 ventilatori per 161 milioni di abitanti e che nel contempo si sia integrata in Italia, dove ha una casa, lavora e conosce la lingua.

In conclusione, non si capisce perché tale orientamento, che come detto resta tale, debba essere tacciato da alcuni titoloni come “blitz delle toghe” o “sentenza creativa”. Infatti, in primo luogo si evidenzia come l’orientamento di una sezione specializzata (come avviene anche per ogni Tribunale di primo grado in Italia) non influenza nessun altro giudice del Paese (in realtà, non influenza neanche gli altri giudici dello stesso Tribunale o Sezione che possono liberamente pensarla differentemente), quindi non la dicitura blitz o sentenza creativa non ha proprio senso di esistere. Inoltre, tali sentenze, se ritenute contrastanti o ingiuste potrebbero essere appellate dal Ministero dell’Interno in Cassazione, questo sì il luogo in cui potrebbe eventualmente essere emessa una ordinanza con un valore superiore (ma sempre non obbligatorio, perché si ricorda che in Italia, a differenza dei Paesi anglofoni, non esiste il “precedente”, ma solo orientamenti), ma solamente nel caso in cui sia deliberata a Sezioni Unite (quindi in cui tutte le Sezioni che compongono la Cassazione sono concordi su tale orientamento).

Come si potrà comprendere siamo ben lontani da tutto ciò e per il momento ci si accontenta di ringraziare il collega del Corriere della Sera per la meritevole intervista ai giudici della Sezione di Milano e quest’ultimi per il loro impegno continuo nella tutela dei diritti e del rispetto della legge a dispetto di una situazione non facile in cui la categoria è spesso oggetto di accuse, ingiustificate e oggettivamente strumentalizzate per il semplice bisogno di click e like.

Sappiamo bene che la stampa non sta vivendo un grande momento, ma questi mezzucci non danno onore alla categoria e rischiano di essere controproducenti. In due semplici parole che vanno molto di moda ultimamente, queste notizie sono da identificare come “fake news”.

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