Usa: La morte di Floyd diventa globale

La morte di Floyd riporta nelle prime pagine il tema del razzismo e della violenza

Come è ovvio che sia, l’emergenza Covid-19 ha cannibalizzato ogni altra questione e verrebbe da chiedersi quante altre tragedie internazionali si siano perse nei meandri dei trafiletti in questo lungo tempo. Ma, sul finire di maggio, in una strada di Minneapolis è avvenuto un fatto che ha ridefinito la narrazione del presente, affiancandosi con uguale o più forza al tema del coronavirus. 

George Floyd, cittadino nero di 46 anni, è morto a causa di un intervento brutale di un agente di polizia locale. Da quel momento la storia, americana e non solo, è cambiata.

Da oltre dieci giorni gli Stati Uniti sono terreno di manifestazioni e cortei in decine di città. Alcune sono degenerate in atti violenti, con edifici dati alle fiamme, auto e negozi vandalizzati e centri commerciali saccheggiati, ma in questi casi, da alcune fonti, sembrano essersi innestati gruppi di malavitosi, e di bande organizzate, a cui la cronaca ha dato maggiore enfasi.

La realtà però e che nella maggior parte dei casi si è trattato di iniziative pacifiche. Chi invece ha mostrato un certo grado di violenza costante è stata proprio la polizia americana, che tra proiettili verso le abitazioni, investimenti con i propri blindati, lacrimogeni, armi stordenti e silenziamento del dissenso, ha fatto capire che la brutalità con cui è stato ucciso George Floyd non era un caso isolato, nell’anno in corso ci sono già 819 decessi registrati in situazioni di questo tipo e le vittime sono in proporzione in grande maggioranza afroamericane. Questo spiega bene perché la notizia abbia avuto un risalto così alto. I due principali problemi del paese, la violenza istituzionale e il razzismo endemico, sono venuti ancora una volta a galla, in un momento storico già complesso. Quello del Covid-19 appunto, con gli afroamericani tra i più colpiti dalla malattia ma anche dagli effetti delle misure di distanziamento sociale. Eppure, l’onda di indignazione non si è fermata ai confini americani, al contrario si è subito trasformata in causa globale. Centinaia di migliaia di persone sono scese in strada dal Canada alla Francia, dalla Spagna alla Siria, mentre in Italia per i prossimi giorni sono state organizzate iniziative simili. 

Un Caso internazionale, che in Italia è stato paragonato, con le dovute differenze,  alla morte di Soumaila Sacko, il migrante ucciso a colpi d’arma da fuoco in territorio calabrese e divenuto il simbolo di quella triste stagione di aggressioni razziste fomentate da una dialettica politica violenta a suon di allarmi invasioni e deliri sovranisti. Vengono in mente altre storie simili come quella di Federico Aldrovandi. Ovviamente nessuna demonizzazione delle forze dell’ordine, anzi massimo rispetto per coloro che vivono questo ruolo come servizio dello stato, capaci di andare avanti anche quando lo stato stesso li lasca soli, ma a onore di cronaca non si possono dimenticare le tante persone morte nelle mani dello stato, su cui nella quasi totalità dei casi, ma non in tutti per fortuna, si è posata una patina di silenzio e omertà istituzionale.

Se negli USA il dito è stato puntato su Donald Trump definito, in varie manifestazioni come il criminalizzatore delle minoranze, il volta spalle dei diritti civili, un uomo (presidente) solidale alle forze di polizia senza se e senza ma, è anche vero che nel resto del mondo altri leader populisti potrebbero seguire la stessa sorte, in una specie di effetto domino, così come accadde con le primavere arabe.

Sembra che i fatti di Minneapolis abbiano avuto la capacità di oscurare in parte la notizia del Covid-19, proprio perché come il Covid riguardano un dramma sociale che “sfonda” i confini nazionali, traslandosi in problematiche globali. Il virus del razzismo, della paura del diverso serpeggiano sinuosi in ogni società, bisogna cercare di, attraverso azioni e confronti costanti, creare un antidoto alla violenza, non un antiviolenza, ma una cultura della pace e della scoperta dell’altro come risorsa. Sono certo che una politica più attenta alle persone, una politica centrata sulla persona, e non sul bisogno della persona, possa condurci ad una società “più capace” di includere. Una società rivolta la bene comune più che all’interesse “personale”.

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