RACCONTI ROMANI DI NADIA TERRANOVA

I riferimenti autobiografici affiorano in ogni racconto, anche in quelli dove l’occasione narrativa è più laterale.

   I dieci racconti di Nadia Terranova, nella raccolta intitolata Come una storia d’amore (Giulio Perrone Ed., RM, 2020), sono tutti ambientati a Roma, città di residenza dell’autrice. Roma va raccontata “come una storia d’amore” (p. 96). Lei l’aveva “cominciato a chiamare R.: un modo per illuderti, per odiarla in pace senza schierarti e amarla in pace senza celebrarla” (p. 99), in quanto non voleva che “diventasse una Roma fra tante, la Roma di tutti” (p. 98). In effetti, “la città non smetterà di essere raccontata, mentre di R. non si può raccontare niente” (p. 102).

   La soggettività di R., rispetto all’oggettiva Roma, caratterizza peraltro la stessa scrittura della Terranova. Dice Alberto Casadei, dell’Università di Pisa: “Come si comportano gli scrittori che vogliono […] delineare una loro visione della realtà, non una semplice fotografia o un resoconto notarile, ma un’interpretazione sfaccettata […]? Alcuni si muovono verso la creazione di macchine narrative molto complesse, a volte un po’ assurde ma grandiose, altri restringono il campo e raccontano soprattutto di loro stessi, delle loro esperienze vere o di altre fittizie, spesso unite in modo indistricabile. Possiamo chiamare, per comodità, i primi gli epici, i secondi gli autobiografici” (La lettura, Corriere della Sera, n° 443 del 24.5.2020).

   I riferimenti autobiografici affiorano in ogni racconto, anche in quelli dove l’occasione narrativa è più laterale. Ma in quello che s’intitola Il primo giorno di scuola (non quello vissuto nell’infanzia, anche se è richiamata la “vergogna vertiginosa” provata allora), che è quello delle lezioni di apprendimento della lingua ebraica (“una lingua che si scrive al contrario è perfetta per me”, p. 34) prese in un corso tenuto al Ghetto di Roma, sono addirittura esorbitanti: “Penso a tutti quelli che mi dicono che dovrei fare un figlio, perché tra un po’ sarà tardi, potrei pentirmene” (p. 33); “penso alla città dove sono nata, ricostruita sulle macerie dopo il terremoto del 1908 […]. Non è che Messina c’entra con ogni cosa […]. Non è che io c’entro con ogni cosa” (p. 35); “la fuga da una città all’altra” (p. 35); “non mi interessano i bambini degli altri quanto quella che ho lasciato a Messina, un sacco di tempo fa, facendo finta di crescere e andandomene poi veramente, per ribadire con la mia partenza che ero diventata grande sul serio” (p. 38). E si potrebbe continuare con quelli che l’autrice chiama, con autoironia, “ripiegamenti cavernicoli” (p. 35). Nel racconto è anche commemorata, in una parentesi, la giornata del 16 ottobre 1943, quella della razzia nazista contro la comunità ebraica romana (ma non viene citato il racconto indimenticabile che ne ha fatto Giacomo Debenedetti).

   Questo carattere della scrittura dell’autrice ha poi un versante più discreto ma in ogni caso più pervasivo, perché attinente agli aspetti psicologici della sua personalità, come già peraltro messo in luce nei romanzi del 2015 e del 2018. Si tratta di una sensibilità precipuamente al femminile, venata d’infelicità e di pessimismo, sulla scia di quella “possibilità di sofferenza sconfinata” tanto bene descritta da Natalia Ginzburg. Così nel succitato racconto: “La felicità esiste, e mi ha schivato di proposito” (p. 35); “da vicino nessuno è felice” (p. 41); “infelici gli infelici perché sono goffi, inadeguati e l’unica strada che conoscono per far fronte a una ricorrenza è ignorarla” (p. 43). Tanto che il racconto si conclude con la domanda: “come si dice in ebraico felicità ?” (p. 47). Così avviene anche negli altri, anche se per interposta persona attraverso la finzione dei personaggi. Ne La lavanderia sbagliata, a esempio, viene detto: “non bisognerebbe mai togliere a qualcuno un’occasione di felicità” (p. 54). Ne L’ora di libertà: “Io allegria non ne ho […]. Voler bene alle mie cose posso farlo, ma voler bene alla mia vita, quello proprio non riesco” (p. 60). Ma è nel racconto La felicità sconosciuta (che ha tra l’altro un’epigrafe da Bufalino sull’odio di sé) che la felicità diventa addirittura personaggio. Eccone qualche stralcio: “A volte si chiede […] se sia stata felice almeno una volta, e quando” (p. 71); “il dolore la assedia fino a sabotarla, fino a impedirle di vedere lo stesso dolore negli altri esseri umani. Esiste davvero, poi, il dolore degli altri? O registriamo la sua esistenza solo quando per semplice casualità sfiora e amplifica il nostro?” (p. 72)[citazione che registra quel sentirsi colpevole da eautòntimorùmenos che si riscontrava già in Addio fantasmi, a p. 163]. La “matassa aggrovigliata” (p. 78) della depressione, attraverso il personaggio di una parrucchiera, diventa freezing, cioé congelamento delle emozioni – come dirà lo psichiatra – nell’omonimo racconto.

   Ma non insistiamo. Soffermiamoci per un momento sugli aspetti formali. A volte il tessuto narrativo dell’autrice attenua o fa scomparire del tutto la subordinazione sintattica, a vantaggio di una paratassi, peraltro molto efficace, che si avvale di una punteggiatura ricca di virgole e di punti e virgola. Nel primo racconto della raccolta, Via della devozione, c’è anche un effetto di straniamento con ben sei passaggi dalla 3^ alla 1^ persona (“se io fossi il narratore onnisciente”), per indurre il lettore a non farsi coinvolgere emotivamente dalla lettura o anche, molto probabilmente, per diminuire la tensione emotiva della stessa autrice (il racconto narra dell’omicidio di un transessuale da parte di uno sconosciuto cliente). Un discorso a parte va fatto per il lessico impiegato, che può andare dal linguaggio “basso” di p. 78 (frasi sottolineate) o di qualche voluto impiego del romanesco (“fruttarolo” invece di fruttivendolo), oppure di termini alla moda (underground, fighetti), per arrivare infine all’impiego sistematico, ne La felicità sconosciuta, della terminologia elettronica dei social network (hashtag, cancelletto, taggano, chattare, cliccare, invia, like, bacheca, cartella documenti, ecc.).

 

NADIA TERRANOVA, Come una storia d’amore, Giulio Perrone Ed., RM, 2020, € 15,00.

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