“LETTERE” DI LUCIO ZINNA SU SCRITTORI SICILIANI E NON

Un insieme di grandi nomi esponenti della cultura

   Il poeta e critico Lucio Zinna aveva già raccolto in volume suoi interventi saggistici ne Le parole e l’isola (PA, 2007), a parte poi un suo fondamentale studio su Ippolito Nievo (Marina di Minturno [LT], 2006). Adesso, come dice nell’avvertenza di Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito (Mimesis Ed., Sesto S.G.[MI], 2019), dedica l’attenzione a rilevanti personalità del mondo letterario isolano, precisando che, assieme agli autori più celebrati, “la Sicilia è doviziosa di quella che ormai si è soliti appellare letteratura sommersa, […] di eccellenza altrettanto vasta, se non più, di quella, per così dire, ‘emersa’” (p. 6).

   Il primo saggio è dedicato all’analisi del carteggio Antonio Pizzuto – Salvatore Spinelli,  amico ed ex compagno di scuola del primo (ma sulla scrittura di Spinelli Zinna si era già interessato ne Le parole e l’isola ). Le lettere sono 378 (263 di Pizzuto e 115 di Spinelli: di costui mancano quelle antecedenti al 13 marzo 1946). Esse vanno dal 1929 al 1969, un quarantennio più che bastevole per ragguagliarci sulla divergente ma complementare personalità di entrambi. Si ha infatti una sorta di  “mutualità letteraria, oltre che umana”, qualcosa di simile – come dice scherzosamente Pizzuto – a quanto fanno i sacerdoti (i parrini ) che “si confessano gli uni con gli altri o a due scimmioni che, chiusi nel gabbione, occhi e culi arrossati, si levano di dosso le pulci a vicenda” (p. 8). Pizzuto chiede a Spinelli (che vive e lavora a Milano) se lo possa aiutare a presentare all’editore Mondadori l’opera Sinfonia, e l’amico invia il dattiloscritto ad Angelo Gatti (romanziere di successo) e al critico G.A.Borgese. Sarà Pizzuto, dopo molto tempo, a riferire a Spinelli che Borgese aveva trovato “l’insieme arido e troppo infuocato” (p. 10). D’altra parte Pizzuto troverà il romanzo spinelliano Il mondo giovine ancora incluso “nel ciclo verghiano e con un uso eccessivo del dialogato” (p. 12). Non era però vero che il romanzo fosse collocabile “nel ciclo verghiano”, anche se Spinelli deve aver accolto in parte le osservazioni dell’amico se l’edizione a stampa del romanzo (Ceschina, 1958) ha una stesura di 700 pagine rispetto alle 1200 del dattiloscritto. Il fatto è che il realismo extracanonico spinelliano (che fa uso dell’analisi psicologica e del monologo interiore) non poteva piacere a Pizzuto, nel quale (come in Rapin e Rapier e in Si riparano bambole) Spinelli trovava “mancanza di organicità e un simbolismo non sempre chiaro”. E dirà nel 1949 all’amico: “Noi siamo due scrittori di opposte tendenze. […] Ma non pretendere da me quello che non posso dare; e non supporre che io non abbia voluto moltissime particolarità del mio lavoro che tu consideri difetti” (p. 18).

   Segue un Profilo di Ignazio Buttitta (1899-1997), che a Bagheria fin da ragazzo aiuta il padre in una bottega da salumiere. Combatterà sul Piave e pubblica la prima raccolta di versi (Sintimintali) nel 1925. Dirige con due sodali il periodico di poesia dialettale “La trazzera”, che dopo un anno verrà chiuso dal regime fascista. Si trasferisce a Milano per intraprendere un’attività commerciale, che va a monte per lo scoppio della guerra. Nel 1944 milita fra i partigiani (l’anno successivo sarà arrestato dai fascisti e poi liberato dagli alleati). Raggiunto con il commercio un discreto benessere, nel 1970 si stabilisce definitivamente in Sicilia (ad Ispra, frazione marina di Bagheria). Nel decennio ’45-’55, il suo compaesano Guttuso lo mette in contatto con Vittorini e Quasimodo. A partire dal 1954, quando pubblica Lu pani si chiama pani, farà via via seguire le sue opere, fino a Le pietre nere del 1983. Se nella prima c’erano ancora gli echi della poesia tradizionale, già con  la seconda (Marabedda) ci sono quei toni realistici e gli echi di quella dimensione sociale che sarà la sua più caratteristica. Nelle successive (Purtedda e Lamentu d’una matri) troverà i ritmi delle cantate popolari e, scendendo a declamare nelle piazze, recupererà un’arcaica oralità. Esalta il socialismo e il solidarismo cristiano e stigmatizza le sirene arcadiche (incarnate da Giovanni Meli). Nel Lamentu pi Turiddu Carnivali (1956) si avvicinerà al Llanto di Garcia Lorca: vi si fondono ballata di cantastorie e lauda jacoponica. Ne La paglia bruciata (1968) adotta il modulo della poesia narrativa : la sua poesia “diviene più dotta e meno detta, più allusiva”. In Io faccio il poeta (1972) c’è una particolare attenzione al dramma del popolo siciliano (rapinato persino della lingua), mentre nell’ultima opera tornerà alle sue radici, quelle lirico-elegiache, per creare poesia della memoria.

   Segue uno studio sulla Dimensione etico-religiosa nella poesia di Quasimodo. Dimensione che, rispetto ad altri tòpoi tematici, ha avuto un’attenzione meno insistita da parte della critica e che nella sua opera appare a volte manifesta e tal altro sommersa. Essa è peraltro collegata all’immagine che in vita il poeta diede di sé, nel senso di un coerente laicismo e di una collocazione politica correlabile a un socialismo protonovecentesco, ma corroborato da un più attuale engagement sartriano. Fase che si evidenzia dopo la stagione ermetica, caratterizzata dalla poesia pura e dalla “poetica della parola”. La prospettiva di “rifare l’uomo” (discorso di Stoccolma per il  Nobel del 1959), attraverso strumenti solidaristici, mira a mutare l’uomo dall’interno. Barberi Squarotti addirittura esclude nell’opera quasimodiana ogni carattere di trascendenza, al contrario di quanto fanno Sergio Solmi, Carlo Bo, Giuseppe Zagarrio e Roberto Sanesi. La marcata dimensione etica della sua poesia viene rilevata da Neria De Giovanni (1984) in due livelli: il primo attinente all’umanità in quanto tale e l’altro legato alla contingenza storica. Emerge infatti nella sua produzione una tendenza all’oltrità, al superamento dei limiti. Sicché la sua insularità (Quasimodo si sente esule) va vista come apertura verso il mondo, e la sua Sicilia è “siepe” in senso leopardiano. Fatto sta che nel primissimo Quasimodo può cogliersi, come ha osservato Giuseppe Barone (1983), “un’assidua e complessa ricerca di una dimensione religiosa” (p. 39). Come è ampiamente documentabile nel carteggio tra Quasimodo e Giorgio La Pira (l’uno di Modica, l’altro di Pozzallo). La Pira lo invita a essere”il dolce e potente giullare di Dio”, ma il tarlo del dubbio continuerà a rodere il poeta. Le sue tormentate certezze fideistiche (come in Lamentazione di un fraticello d’icona, Matamorfosi dell’urna del santo, Amen per la domenica in albis) tenderanno come a collassarsi. Il Quasimodo seconda maniera terrà a far pubblicamente conoscere il proprio laicismo, anche se l’invocazione al “Dio dei tumori” (Thànatos Athànatos) lascerà aperta la domanda sulla sua esistenza. In un’intervista a Ferdinando Camon (1961) affermerà: “Io non ho mai dato manifestazioni di ateismo”. Quello di Quasimodo può essere un caso di condizionamento ideologico da parte di una cultura egemone (quella di sinistra della sua epoca), ma non quando scrive: “Non m’hai tradito, Signore: / d’ogni dolore / son fatto primo nato”.

   Il mazarese Orazio Napoli (1901-1970) fu amico di poeti e letterati di primo piano (Saba, Cardarelli, Quasimodo, Sinisgalli). Ma la sua presenza nel milieu letterario appare defilata, anche per il suo temperamento schivo, come mette in rilievo Rolando Certa. A ventiquattro anni viene assunto da Mondadori come correttore di bozze, ma poi svolgerà il compito di “lettore”. Pubblica il primo libro di poesie nel 1929 e fa parte, negli anni trenta, del gruppo di letterati e artisti dei cappotti lisi, che ogni sera si ritrovavano da Savini, in Galleria, ma non per mangiare – come disse Orio Vergani – “solo per il caffè a tavoli un po’ defilati […] per tazzine lunghissime nei tempi di consumazione” (“Corriere” del 2.12.2000). Il suo libro del 1940 Poesie.Con un saggio sulla poetica di Jacopone da Todi (strano accostamento per la verità) viene recensito da Sergio Solmi che rileva “una natura di poeta agli antipodi di quella di Luzi”. Nel 1940 vince la sezione per inediti del Premio San Babila e nel 1956 Mondadori pubblica ne “Lo Specchio” la sua opera più matura, Notte legame mare, che per Zinna va vista come un unicum insieme con Gli occhi a terra del 1964. Il suo ultimo libro, Smarrimenti, è del 1968 mentre postuma, nel 2005, uscirà l’antologia Poesie scelte. In una delle ultime liriche accennerà a sue “navigazioni” (nel Mediterraneo), aggiungendo però che “il cuore è rimasto attaccato / nel posto abbandonato” (p. 53). Diventerà un esploratore di se stesso, un “entronauta”, come avrebbe detto lo scrittore Piero Scanziani. Secondo Zinna i poli della poesia di Napoli, che è poeta memoriale e di solido impianto realistico, sono “la donna”, “il mare” e “la nostalgia”. Comunque la donna e l’amore restano bussola  della navigazione esistenziale del poeta. Ma è il mare che in lui costituisce una sorta di imprinting incancellabile. Dirà, con versi memorabili per l’accentuata metaforizzazione: ”Io sono un uomo di mare: / ho il passo che rolla. / Il friggere della marea / […] / mi fa l’ape negli orecchi”. E aggiunge: “Le ragazze del posto / hanno le ascelle / odorose di molluschi”. L’asciuttezza dei versi di Napoli, che il contatto con gli ermetici ha incentivato, fanno di lui un poeta ermetizzante ma non ermetico.

   In Virgilio Titone: dalla “storia” alle “storie” Zinna scrive su un “umanista”, uno “storico”e un “narratore”. Titone, docente di Storia Moderna, rifuggì sempre dall’accademismo e fu amico di Giuseppe Cocchiara e di Benedetto Croce. Fu costituzionalmente antidogmatico e lottò contro i conformismi di ogni genere. Storia e narrativa sono l’espressione del suo mondo, con la stessa identità che intercorre fra arte e storia (lettera a Luciano Anceschi del 28.5.1971). Esordì con  i racconti Storie della vecchia Sicilia (Mondadori, 1971), in cui l’isola è ancora quella delle miniere di zolfo, dei “carusi”, dei “fondachi” dei mulattieri e dei “bagli”. Un mondo che scomparirà con la riconversione in senso industriale dell’economia agricola, al contrario della vecchia mafia che saprà trasformarsi, come è descritto nel romanzo Le notti della Kalsa di Palermo (1987). La seconda edizione dei racconti appare nel 1987, col titolo Vecchie e nuove storie siciliane, dove il panorama antropologico riflette gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza dello scrittore. Proprio ne Gli anni di Mazara e nei Ricordi castelvetranesi (Titone vi era nato nel 1905) i personaggi si possono considerare, più o meno verghianamente, dei vinti. Il romanzo su Palermo è policentrico e la mancanza di una vicenda centrale e di un protagonista lo fanno avvicinare al romanzo d’appendice ottocentesco. Ma costituisce comunque un atto d’amore verso la città (al contrario di quanto accadeva in Sciascia, che disprezzava Palermo). Dalla constatazione della condizione umana e dall’amara dignitosa consapevolezza del “fallimento inevitabile di tutti gli uomini” emergono tuttavia due opposti sentimenti: l’uno di solidarietà e di commiserazione per l’umanità in generale […], l’altro dell’inespresso bisogno di affrettare nel pensiero la fine che ognuno si stava preparando. Sentimenti che riscattano il suo cupo pessimismo, al punto che Helmut Koenisberger poté dire che quello di Titone è “un verismo fatto di simpatia e di comprensione della condizione umana” (1987). Dei veristi siciliani appare vicino a De Roberto  più che a Verga, ma il suo realismo – al di là delle differenze di genere – lo avvicina a Georges Simenon, a cui peraltro dedicò un ampio saggio su “La Nuova Antologia”.   

   Santino Caramella era un filosofo ligure (Genova, 1902) che divenne una figura di particolare rilievo nella vita culturale di Palermo, dove si era stabilito, al punto da potersi considerare un siciliano d’adozione. In quell’Università insegnò filosofia teoretica, fino alla morte (1972), e fu amico di Piero Gobetti, Benedetto Croce e Giuseppe Lombardo Radice. Il suo saggio L’atto estetico e la coscienza profonda del 1965 fu ripubblicato postumo nel 2000, col titolo Coscienza della poesia. In quegli anni, successivi all’avvento del Gruppo 63, la poesia si orientava verso un accentuato formalismo, che determinerà una sorta di idiosincrasia nei riguardi del contenuto, in quella che Alfonso Berardinelli chiamerà “depurazione anticomunicativa” (La poesia verso la prosa, Bollati Boringhieri, TO, 1994, p. 14). Caramella non partecipò mai alle diatribe di quel periodo. Ma il suo testo era un modo di intervenire nel dibattito, concentrando l’attenzione sulla teoresi dell’atto creativo: non si può scindere la forma dal contenuto e l’espressione consiste proprio nella pressione esercitata nel contenuto per trovarne la forma più perfetta. Il processo creativo dell’opera d’arte trova la sua genesi nella coscienza intima. La poesia dispone di una certezza sua propria, “ la certezza poetica, che è quella […] della presenza e del possesso di un momento di vita e di realtà assolutamente interessante ed efficiente, elaborato in forma creativa” (p. 89). L’importanza dell’inventio nell’atto creativo capovolgeva l’assioma neoformalistico.

   Il settimo e l’ottavo saggio del libro di Zinna hanno un particolare rilievo storico e costituiscono una documentazione di prima mano sulla vita letteraria artistica di Palermo fra la seconda parte degli anni ’60 e la prima degli anni ’70, essendo stato lo scrittore un protagonista di almeno uno dei “movimenti” che si svolsero nel capoluogo isolano. Si tratta di: Castrense Civello: da Marinetti al Gruppo Beta e 1971: Neoavanguardie a Palermo tra passione e ideologia. Zinna, nel primo dei saggi, rievoca la figura di Civello, che egli conobbe nel 1965, quando tenne una relazione su due gruppi d’avanguardia (con recita di poesie) allo scomparso Africa club, con effetti sonori e musicali di Karlheinz Stochausen e John Coltrane. I due gruppi erano Linea zero e Beta 71. In quell’occasione fece dono a Zinna, come promotore del Gruppo Beta, di una copia del poema futurista Il pilota sconosciuto (1947) e chiese di aggregarsi: la sua presenza stabiliva così un ponte ideale tra avanguardia storica e neoavanguardia. Civello, successivamente, fece dono anche di un suo libro su Gioacchino Guttuso, il padre del pittore, in occasione dell’intestazione di una scuola statale allo stesso. E lavorando Zinna ai programmi culturali di RAI/Sicilia, nell’aprile 1962 fece un’intervista a Civello, durante la quale egli rievocò il suo incontro con Marinetti a Bagheria, nel salone degli specchi di Villa Palagonia, che gli disse: “Nella mia vita sono andato sempre velocemene ma qui, davanti a queste gemme cesellate dal sole, io vi dico che bisogna andare piano” (p. 107). Si tralascia di riferire, in questa sede, sugli altri versanti dei due saggi.

 

LUCIO ZINNA, Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito, Mimesis Ed., Sesto S.G. [MI], 2019, € 10,00.

   

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