LA GIOSTRA DEL POTERE, TUTTI I SEGRETI DEL PALAZZO

Nelle ‘confessioni’ di un capo di gabinetto la caccia al computer buono e l’ora giusta in cui salvare o buttare a mare un ministro

“Io sono l’ombra. L’ombra del potere. Talvolta piu’ potente del potere. Io sono il capo di gabinetto”. La verita’ e’ che gli uomini di potere non fanno qualcosa: sono qualcosa, il volto invisibile del potere, i capitani della stanza dei bottoni, dove senza riflettori accesi e microfoni per il circo delle dichiarazioni, va in scena la forza delle decisioni e l’arte di negoziare e attendere il momento giusto. Uomini non del kronos, il tempo che scorre, ma del Kairos, il tempo opportuni, l’ora in cui devi raccogliere quello che hai pasturato per mesi. La fiche che devi lanciare sul tavolo verde per capovolgere la partita a tuo favore. “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto” (Feltrinelli, pp. 285, euro 18) fa stato delle mappe del potere ma e’ anche un potente racconto di chi vive nei palazzi e di quelle scrivanie conosce legni e tarli.

I capi di gabinetto usano bisturi e machete, e del loro ambiente conoscono tutto. Sono gli Stradivari del potere, quelli che vanno nella miniera di carbone delle rotture di palle quotidiane per trovare diamanti da gettare a suo tempo sulla pesa. Non serve avere ventri batraciani o un buon curriculum: serve cazzimma e soprattutto saper cogliere l’occasione, perche’ nessuno offre un’occasione a chi e’ piu’ bravo e puo’ metterlo in ombra. Inutile fare la squadra prima, la squadra nasce dopo che e’ stato fatto il governo, manuale Cencelli alla mano. Tutto si ripete come ai tempi della scoperta del fuoco o della ruota, e per tutto occorrono pensieri lunghi e pelo sullo stomaco. Mai lasciarsi andare a nomine per amicizia o riconoscenza, e’ questione di equilibrio. Occorre avere uso di mondo e rispettare regole di ingaggio: “Oltre la tua porta c’e’ il fondo del lago dove si depositano immondizie che ancora non conosci, ma che presto ti ritroverai tra le mani. A Roma tutto e’ gia’ stato visto e vissuto. La regola fondamentale e’ il controllo assoluto”.

Chi vuole essere (non fare) il capo di gabinetto deve essere il primo a entrare e l’ultimo a uscire dal palazzo, deve saper ascoltare allo stesso modo gli uscieri che custodiscono mille segreti e la fila dei raccomandati spediti davanti a una scrivania da amici politici o da qualche zio cardinale. C’e’ sempre una seconda soluzione per tutto, e per i documenti vale la tecnica del baco. La riorganizzazione, poi, e’ la strada maestra per sistemare le cose e incasellare i tasselli. L’amalgama, come insegnava il presidente dell’Avellino calcio, il mitico commendatore Antonio Sibilia, non si puo’ comprare. Bisogna crearla. O trovarla anche nel risiko della lisergica melina.

Il capo di gabinetto e’ anzitutto un connettore di mondi, grand commis, non portaborse ne’ schiavo del ministro di turno anche se di quel ministro deve conoscere pure le mutande e proteggerlo soprattutto nel grande gioco delle leggi, dei decreti scritti ad arte e delle riunioni di governo nelle quali chi resta dietro la porta di castagno conta più di chi e’ seduto sul mogano. Chi ha provato a fare a meno di loro, e’ finito gambe all’aria.

Un capo non lavora in chat ma ha una “agenda romana” che puo’ servire in ogni occasione. Non manda, si alza e va lui a perorare cio’ che gli sta a cuore. Era la regola dei contadini dal tempo di Giordano Bruno: nu manna, sussit e va’.

Le mani bisogna metterle, senza sporcarsi pero’. Ci vuole arte per salire sulla giostra al momento buono e sempre arte per scendere, prima di venire tritato. La danza del potere sfianca ma e’ anche un’avventura unica che dona adrenalina e chiede sacrifici. E’ quella “magia dello Stato” che, ad esempio, si respirava a pieni polmoni durante i preconsigli presieduti da Gianni Letta (da incorniciare le righe sulle modalita’ con cui l’ex sottosegretario conduce i colloqui delle migliaia di persone che bussano alla sua porta, non solo quando il berlusconismo e’ stata una colorata corte).

“Se vi piacciono le leggi e le salsicce non chiedetevi come vengono fatte”, salmodiava Antonio Martino, citando in realta’ Bismarck. In questo rito magico, “ a noi spetta mescolare la minestra ribollente, aggiungere sale. E girare, girare sempre finche’ il ministro non da’ l’ordine di spegnere il fuoco”.

Cosi al tempo della finanziaria (che oggi si chiama legge di bilancio) e’ importante sapere quale e’ il computer buono, quello sul quale si scrive l’articolo che si portera’ dietro una marea di prebende con poche righe da buttare dentro l’articolato quando scattera’ l’ora giusta, azzoppando gli altri questuanti, smarcandosi alla grande per gonfiare la rete. Perche’ le notti hanno senso solo se portano alla vittoria nella notte delle notti.

Il metodo Azzolini insegna  che prima o poi devi tirare una riga, e spazzare gli emendamenti.

“Noi siamo gli altri, quelli che restano”. L’ascetismo non funziona in una città  mediorientale come Roma. Dai politici bisogna prendere due lezioni: il culto della durata, della resilienza. La seconda e’ che la durata richiede misura.

Ma loro, i politici, prima o poi passano. “Per noi c’e’ sempre un dopo. E’ l’arabesca arte del ricollocamento. Si lavora sempre per un dopo, per un altrove”.

Comincia un altro giro, servono gli uomini del potere. I capi di gabinetto alfa.

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