L’Italia riconosce e punisce la Tortura

Effetti e riflessi di una riforma tanto tardiva quanto necessaria

La tortura è una pratica inumana e infame praticata sin dall’alba dei tempi principalmente per estorcere informazioni a dissidenti e persone indagate o incarcerate. Col tempo è stata progressivamente riconosciuta a livello internazionale come reato, fino alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti delle Nazioni Unite del 1984 (la c.d. CAT, entrata in vigore nel 1987) che ne ha dato una puntuale definizione. Oggi il divieto di tortura appartiene al c.d. diritto internazionale cogente ed ha quindi portata obbligatoria universale. L’Italia ha ratificato la Convenzione nel 1988. Ciononostante non è mai stata data attuazione alle disposizioni ivi contenute, soprattutto alla previsione di un reato di tortura all’interno del nostro codice penale. Ventinove anni sono trascorsi da quel 3 novembre 1988 e dopo proposte, emendamenti e lungaggini varie si è finalmente giunti alla stesura di una legge che prevede la disciplina di tale pratica aberrante.

La notizia ha attraversato tutto il Bel Paese dopo pochi minuti dalla comunicazione dell’avvenuta emanazione, e l’opinione pubblica e scientifica si è rapidamente divisa in favorevoli e contrari. Non volendo entrare nel merito delle posizioni prese dai partiti politici, poiché i più ispirati a questioni di opportunità o di principio, è in ogni caso bene operare un’attenta analisi del testo redatto dal nostro Parlamento in modo da comprenderne punti di forza e criticità.

È indiscutibile l’importanza di una legge che preveda il reato di tortura nel nostro ordinamento, come tentativo di evitare nuovamente il ripetersi di fatti tristemente noti (volendo citarne alcuni, le violenze avvenute alla scuola Diaz durante il G8 del 2001, il caso Cucchi e in generale ogni altra situazione di violenza all’interno delle carceri) o quantomeno di eliminare quelle sacche di impunità che si generano regolarmente. Ma per comprenderne la reale portata è necessario addentrarsi nel testo legislativo italiano e internazionale. Quest’ultimo riconosce infatti come tortura “qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate.” Nel codice penale italiano è stato introdotto dalla legge 5 luglio 2017 il nuovo art. 613 bis: “Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, o che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni. Il fatto è punibile se compiuto mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.” Da una prima analisi possono dunque costatarsi alcune differenze sostanziali. Innanzitutto la specificità degli atti di tortura previsti dalla legge italiana, mentre per la CAT è sufficiente “qualsiasi atto”. Anche per il danno subito dalla vittima è richiesto un livello più alto di sofferenza rispetto alla CAT, ma ciò che più ha destato scalpore è la necessità, secondo la nostra nuova normativa, di una pluralità di condotte per la realizzazione del reato di tortura. Quindi un solo atto di tortura non sarebbe ricompreso nella fattispecie tortura, creando una nuova possibilità di impunità per i perpetratori del crimine. Rimane da comprendere l’effettiva portata della seconda parte del paragrafo che pone attraverso una definizione fumosa l’alternativa di “un trattamento inumano e degradante per la dignità” come idoneo alla realizzazione del reato. La mancata previsione di una finalità del reato pone seri dubbi circa l’applicabilità in concreto della fattispecie. Potrebbe invece avere grandi potenzialità l’indicazione in termini generali di colui che compie il fatto di reato, ma anche per tale punto sarà necessario attendere una risposta giurisprudenziale a riguardo.

Nel complesso non può sicuramente darsi un giudizio positivo a questa riforma che potenzialmente avrebbe potuto e dovuto fare di meglio, anche con una semplice trasposizione della norma internazionale (il classico copia-incolla). In un’ottica di lungo termine, si può comunque riconoscere il fatto che la barriera dell’indifferenza è stata distrutta e quindi si auspica che verranno apportati emendamenti e modifiche significative per rendere realmente effettiva tale riforma fondamentale.

A livello di cooperazione internazionale fa riflettere la modifica apportata dalla stessa legge al Testo Unico sull’Immigrazione, dove è stato inserito il seguente paragrafo 1-bis all’art.19: “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Questa norma riflette il principio internazionale di non refoulment, appunto il divieto di respingere o comunque fare in modo che una persona sotto la propria giurisdizione vada in un paese in cui i suoi diritti fondamentali possano essere con ogni probabilità violati. Nonostante la non necessità di inserire una norma che ha comunque una forza imperativa universale, valida ugualmente per ogni paese del mondo, essa può generare opportune riflessioni, soprattutto nei rapporti e nei relativi accordi da stringere con alcuni paesi, in particolare la Libia.

La Libia è infatti uno stato in cui sono documentate dai sistemi di monitoraggio internazionali “violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Il Governo italiano ha intenzione di bloccare i flussi migratori in entrata attraverso un accordo quadro con uno dei governi riconosciuti in Libia e sta effettivamente investendo nel paese con risorse economiche e strumentali. In tal modo potrebbe essere by-passato il divieto di respingimento e l’Italia bloccherebbe i flussi ed eviterebbe l’ennesima condanna internazionale da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU – Corte di Strasburgo). Sembrerebbe una soluzione perfetta. Purtroppo l’uomo non impara dai suoi sbagli passati e la storia viene dimenticata facilmente. In questo contesto, un accordo con la Libia che aggiri un divieto così essenziale e basilare come il non refoulment e porti quindi l’Italia a partecipare in maniera indiretta alla violazione dei diritti umani di interi popoli, è una aberrazione giuridica e morale. Inoltre, sottovaluta i poteri della CEDU. Nel 2011 il Governo italiano tentò attraverso un simile sotterfugio di non ottemperare ai propri obblighi internazionali operando i respingimenti collettivi di migranti nelle c.d. acque internazionali. La Corte di Strasburgo ovviamente non si è lasciata abbindolare da questo tecnicismo e ha punito l’Italia, con la famosa sentenza Irsi, per violazione del divieto di respingimento e indirettamente per aver permesso il protrarsi di pratiche inumane come la tortura. I diritti umani non finiscono al confine territoriale di uno Stato, sono universali e in quanto tali vanno garantiti in ogni situazione spaziale e temporale. Con un accordo quadro con la Libia il rischio di ripercussioni giuridiche e morali è molto alto e probabilmente non si avranno gli effetti pratici dichiarati con fermezza dalla classe politica dirigente.

Si avverte la necessità di intervenire nei paesi di origine dei flussi migratori ed è apprezzabile la volontà di “aiutarli a casa loro”, come viene ribadito ultimamente dagli esponenti di partito. L’approccio non è decisamente dei migliori, ma ci si può lavorare. Questo perché non può ritenersi di sistemare problemi strutturali solamente con ingenti finanziamenti fini a sé stessi. È da tener presente che nessuno vorrebbe abbandonare la propria casa, soprattutto con l’alta probabilità di subire maltrattamenti e abusi. L’investimento dovrebbe quindi essere indirizzato sul fattore umano, creare quindi nelle persone la possibilità di operare una scelta effettiva e informata. Ciò può essere realizzato solamente puntando sull’unica cosa che genera nell’uomo consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità: la cultura. Investire sull’educazione, favorendo l’accesso universale alle scuole e all’informazione, può provocare effetti a catena inimmaginabili, che forse la nostra società occidentale ha dimenticato o semplicemente dà per scontato.

Con l’introduzione del reato di tortura è stato fatto un piccolo passo, quasi impercettibile ai più, verso la tutela effettiva dei diritti dell’uomo. Questo deve stimolare a fare ancora di più, a non accontentarsi di risultati facili, ma a pensare in grande, per tendere verso quella dimensione,per il momento solo ideale, di umanità, propria degli esseri umani. È un obiettivo pretenzioso che richiederà tempo ed energie condivise. Sarà fondamentale non cadere in ragionamenti semplicistici e discriminatori, ma considerare il vero valore e il contributo che ogni persona può donare ad un paese, se libera fisicamente e mentalmente dalla minaccia di tortura.

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