LA FESTA DEI MORTI IN MESSICO (E IN SICILIA)

Tra i dolci in comune pupi di zucchero, taralli, mustazzoli e frutti di martorana - Un bicchiere d’acqua per placare la sete dei defunti

Immagine : Un fregio (con i teschi) di un tempio azteco

Pan del Alma è un volume collettaneo progettato da Gloria Corica e curato dalla stessa, da Pino Cacucci e da Simonetta Scala (Ed. Lizart, BO, 2014, € 20: si può richiedere via e-mail a “simo@lizartcomunicazionevisiva.it”). E’ un volume dalla particolare copertina (apribile), che richiama subito quello che è l’elemento più spettacolare e affascinante della messicanità, e insieme il più profondo: l’importanza che ha in quella cultura il tema della morte. Dice un’epigrafe di Octavio Paz: “Il culto per la vita, se è davvero profondo e totale, è anche culto per la morte. Le due sono inseparabili. Una civiltà che rifiuta la morte, finisce per negare la vita”. Come avviene, ahimé, nella sociocultura “corrente” (e consumistica) dell’Europa, dove tale tema è un tabù invalicabile.

Come riferisce Patrizio Lorusso, “l’idea della morte e le celebrazioni del Giorno dei Morti, o Dìa de Muertos, vanno dalla notte del 31 ottobre a quella del 2 novembre. […] La festa del Dìa de Muertos è stata dichiarata dall’Unesco ‘Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità’. […] Si può azzardare che si tratti, altresì, di un memento mori nazionale” e – aggiungiamo noi – di un modo per esorcizzare la morte stessa. Questo autore spiega ancora che la festa costituisce un sincretismo fra la tradizione cattolica e quella indigena, risalente agli aztechi. […] Nell’aldilà dei popoli mesoamericani c’era una coppia formata dal dio e dalla dea d’oltretomba e queste due divinità precolombiane sono state poi associate in una nuova icona: la Santa Muerte o Niña Blanca, una figura scheletrica vestita con un saio francescano (pp. 33/37).

Tra i vari contributi che ci dà Pino Cacucci, uno è dedicato alla festa dei morti nel lago di Pàtzcuaro, la velaci?n de los angelitos sull’isola di Pacanda: “lungo le rive del lago, oltre alla miriade di fiammelle, può accadere di ascoltare musica (ogni famiglia porta sulle tombe non solo cibi e bevande cari all’estinto, ma spesso anche le canzoni che più amava) e il clima sorprende per la serenità che prevale sulla mestizia. […] Predomina il cempanìchitì, una sorta di crisantemo giallo ocra” (p. 21).

Un minisaggio di antropologia culturale è quello di Carlo Bonfiglioli, sugli sciamani della Sierra

Tarahumara (i raràmuri), che cercano di “addomesticare” le anime dei defunti (le arewaka) in feste chiamate nutema, delle quali fornisce un illuminante e ricco corredo fotografico. (pp- 47/65).

E’ la siciliana Francesca Gargallo Celentani a richiamare dapprima le feste siciliane di una volta per il giorno dei morti, nel quale costoro portano dolci e giocattoli ai bambini (o meglio, portavano, perché ormai Hallowen ha soppiantato il rito tradizionale). E ricorda, al riguardo, i tipici ossi di morto (dalla fragranza di chiodi di garofano) paragonandoli ai calaveritas messicani (dolcetti di cioccolato e teschi di zuccero). (pp. 69/74). Ma è Olga Medrano a fare il punto sulla comparazione:

“Forse l’unico luogo al mondo dove i giorni dei morti hanno tratti in comune con la ‘festa’ che si

celebra in Messico, è la Sicilia: qui non solo si prepara una variegata serie di pietanze e dolci – tra

cui i pupi di zucchero, i taralli e i mustazzoli, e soprattutto la ‘frutta Martorana’, vere e proprie opere d’arte dolciaria – ma, in particolare, c’è la credenza che i defunti portino regali ai bambini, sorta di anticipazione del Natale o della Befana. Una tradizione che mirava a mitigare il timore della morte nei più piccoli, abituandoli ad avere un rapporto sereno e persino gioioso con chi non c’era più, considerandoli presenze benevole e non spettrali” (p. 125).

Angélica Ruiz ci descrive come viene preparata la ofrenda da porre sull’apposito altare del Dìa de

Muertos: il più comune è a tre livelli, nel quale sono rappresentati il cielo (o paradiso), la terra e l’inframundo (l’aldilà). Nel primo livello vanno poste le foto dei defunti, con una candela davanti, e tre grosse calaveras (teschi) di zucchero, che rappresentano la Santissima Trinità. Sul primo livello si collocano anche gli oggetti utilizzati dai defunti da vivi. Sul secondo, viene posto un piattino con il sale (elemento di purificazione), nonché un bicchiere d’acqua per placare la sete dei defunti (l’acqua simboleggia anche la purezza dell’anima). E poi vanno posti gli elementi che rappresentano la terra, come il cibo, la frutta e le bevande. Sul terzo livello, infine, sono sistemate le calaveras e gli scheletrini (di zucchero o cioccolato). Vi si brucia il copal, una resina profumata (ma si può usare l’incenso). All’offerta non può mancare il dolce chiamato pan de muerte, di cui viene fornita la ricetta (pp. 110/119). Sempre la Ruiz, poi, ci dà alcune interviste ad appartenenti alla comunità messicana di Napoli, che celebra ogni anno la Fiesta de los Muertos all’Instituto Cervantes, dove si allestiscono grandi altari con le ofrendes.

Ma sono molti i collaboratori e i loro contributi. Lo stesso Cacucci ci spiega cos’è la Chingada, nome dato alla morte, dai molteplici significati (dice Octavio Paz: “Per il messicano la vita è tutta una possibilità di chingar o di essere chingado”). Anche Llorona, “quella che piange” – aggiunge

Gloria Corica – è uno spettro assimilabile alla morte.

Cacucci fa anche una disamina del film Macario di Roberto Gavaldón, del 1960, con fotografia del grande Gabriel Figueroa, tratto da un racconto di B.Traven, che costituisce la massima espressione (almeno finora) della messicanità nel cinema. E in un altro intervento, ci parla delle capuzzelle, a Napoli, nella cava delle Fontanelle.

Infine Pietro Alagna ci riferisce di una tradizione calabrese, in base alla quale si lascia un posto vuoto a tavola, per la festa dei morti, a disposizione dell’ospite invisibile, mentre Carla Cavina ci spiega la morte messicana come la ‘Grande Consolatrice’.

Conclude il libro Gloria Corica, soffermandosi sulla sua coralità, anche se ognuno dei collaboratori ha il proprio mondo e cerca di esprimerlo con le proprie opere. Perché conta “rispettare e godere delle diversità, che sono il sale della vita”. (p. 173).

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