Thomas Mann e la mia storia. 150 dalla nascita e 70 dalla morte

Il tempo passa. Ci sono storie. Radicamenti. Viaggi. La storia delle famiglie è intreccio di destini. Perché scavare nella storia delle famiglie, scavare in un vissuto di tradizioni? La Tradizione sostiene l’asse intorno al quale si muovono i modelli antropologici dei territori ma anche delle stesse famiglie e delle dinastie..In un tempo di valori cangianti e decadenti bisogna proporre una fedeltà. La fedeltà delle origini. Credo, sia necessario. ritrovare una idea forte di eredità, di identità e di appartenenza. Segni di una antropologia che diventa necessità di conoscenza e origini

PIERFRANCO BRUNI

Fu Thomas Mann a viaggiare nella civiltà di una famiglia: i Buddenbrook. Fu lui a raccontarci il tempo attraverso una montagna magica, ovvero incantata. Fu lui a scavare nel pozzo di Giacobbe e di Giuseppe. Il mito come rivelazione. Ci raccontò un’epoca. Leggo e rileggo Thomas Mann. Fa parte della mia storia.
I cicli delle vita dei popoli sono rivoluzioni silenti ma hanno la capacità di trasformare le classi avrebbe detto Antonio Gramsci dopo la lettura di un tedesco ebreo di Treviri ma morto nel Regno Unito.
Il tempo passa. Ci sono storie. Radicamenti. Viaggi. La storia delle famiglie è intreccio di destini. “La vita, sapete, spezza qualcosa in noi… smentisce tante volte la nostra fede… Rivedersi… Se fosse vero… ” (Antonie Buddenbrook). “La facoltà di ingannare se stesso, questo è il requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri” (da “Il Gattopardo”).

Perché scavare nella storia delle famiglie? Perché scavare in un vissuto di tradizioni che tracciano destini? Ogni epoca ha un vissuto di civiltà nelle quali si sono sempre intrecciate le diverse articolazioni delle classi emergenti e delle famiglie che hanno una tradizione. La Tradizione diventa l’asse intorno al quale si muovono i modelli antropologici dei territori ma anche delle stesse famiglie e delle dinastie.

La borghesia del Novecento ha scavato un solco che ha separato la nobiltà e le aristocrazie dalla società. I romanzi che maggiormente hanno tracciato un forte inciso nel mio percorso sono “I Buddenbrook” di Thomas Mann, il viaggio di Leonida Repaci nel quale si racconta la famiglia dei Rupe, il romanzo di Cesare Giulio Viola “Pater”, “Caterina Marasca” di Giovanna Gullì e magnificamente “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”, così Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma oggi siamo in una variante nel tempo della notte. Ci sono storie che rimandano ad una intelaiatura sia sociologica che antropologica.

Siamo in una variante della decadenza che ha caratterizzato tutto il Novecento in una dimensione sia spirituale(ovvero ontologica e metafisica) sia esistenziale che ha riguardato i popoli e le civiltà in termini anche antropologici.

Ai romanzi citati volontariamente aggiungo il mio e di Micol Bruni “Cinque fratelli. I Bruni Gaudinieri nel vissuto di una nobiltà” (Pellegrini), cui è appena uscita la terza edizione ampliata.
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La variante, dunque, è distante dalla concezione di una crisi valoriale intorno alla quale si è costruito in questi anni un pensiero debole. Troppo semplicistico affermare che siamo stati attraversati e tuttora ci attraversa una caduta di valori. Cosa sono i valori in termini di identitari è difficile poterlo sottolineare. Thomas Mann: “Abituarsi all’ambiente? No, fra gente senza dignità, senza morale, senza ambizione, senza signorilità e senza rigore, fra gente sciatta, scortese e trasandata, fra gente che è allo stesso tempo pigra e leggera, pesante e superficiale… fra gente così non mi posso ambientare…” (Antonie Buddenbrook).

I valori di generazioni distanti fa sono gli stessi di quelli di oggi? A cominciare dai concetti di famiglia e di tradizione. Non ci si può basare sui valori nel momento in cui si ha la consapevolezza che viviamo di transizioni e dentro questo modello sociologico di transizione entrano anche i concetti citati.

Credo, invece, sia necessario. ritrovare l’orizzonte di una idea forte di eredità, di identità e di appartenenza. In un tempo di valori cangianti, come sono le temperie, bisogna proporre una fedeltà. La fedeltà delle origini. In queste fedeltà o in questa ramificazione di culture si sviluppano i segni di una antropologia che diventa necessità di conoscenza.

È qui che la “geografia” della nobiltà è uno scavo nella coscienza, come quella della aristocrazia e della cavalleria che è dentro il destino delle individualità delle famiglie. La individualità delle famiglie è nel capire la struttura antropologia della società.

Nel romanzo di Cesare Giulio Viola si legge uno spaccato importante di una famiglia borghese che sapeva guardare con attenzione al modello aristocratico: “Nasceva il podere, mentre nella città era nata la casa. Mio padre non aveva badato a spese: il mobilio era giunto da Napoli, ordinato a quel Soley hebert che allora andava per la maggiore, e forniva le province meridionali, propagando quel gusto di marca umbertina, che tra l’850 e il ‘900 tappezzò di broccati e popolò di mobili a stucco i salotti della ricca borghesia. C’erano i poufs nel salotto, i bei divani, le poltrone, le poltroncine capitonnées, e negli sportelli del bahut, incastrati, due piatti di ceramica a rilievo che rappresentavano romantici paesaggi. I mobili erano ben costruiti e ad aprirli odoravano di legno buono. A montarli gli operai avevano lavorato giorni e giorni: e Monsupié, l’ebanista del Museo, aveva protratto la sua fatica, a lume di petrolio, per molte sere fino a tarda sera”.

Una ulteriore variante della sociologia dei valori che si vogliono condivisi, ma che antropologicamente non è possibile. Non esistono valori condivisi perché non può esistere una “collettività” partecipante e omologante tranne se non si ritorna ad insistere su un termine antiestetico che è quello della società di massa. Credo che è nel proporre la visione della propria identità che il viaggio degli uomini può avere un senso.

La nobiltà non si inventa come non si inventa l’aristocrazia. La borghesia si costruisce e parla, appunto, di valori da enucleare nel dire della condivisione e della inclusività. Proprio nei “I Buddenbrook” si legge: “Ma vede, lei è giovane e considera tutto da un punto di vista personale. Lei conosce un nobile, e dice: ma quello è un brav’uomo! Certo… ma occorre non conoscerne alcuno per condannarli tutti! Perché si tratta del principio, capisce, dell’istituzione! Ecco che non sa più cosa ribattere…Ma come? Basta che uno sia venuto al mondo, per essere un patrizio, un eletto… uno che guarda noi altri dall’alto in basso… noi che con tutti i nostri meriti non possiamo elevarci fino a lui?…”

Io non mi sento partecipe delle condivisioni in questa leggerezza di tempo e tanto meno sostengo che bisogna essere inclusivi. Le “classi” esistono. Nessuna rivoluzione potrà mai abolirle. L’individualità è una nuova energia che diventa la vera resistenza contro il brutto, l’irato, il massificato. La bellezza non è nell’insieme che non significa nulla, ovvero massa, ma è nel custodire quell’amore verso l’essere che è individuo, uomo, persona con una sua antropologia di ereditarismi di significati e significanti.

Bisognerebbe riscoprire i titoli nobiliari in una società, appunto, della consumazione della transizione. Questo significherebbe dare senso al rispetto della storia e alla cifra che la storia ha decodificato all’interno dei vissuti. Ma la nobiltà non è soltanto nelle azioni. Si è stati Gattopardi. Chi potrà sostituire una nobiltà che ora non c’è più? Chi potrà sostituire una aristocrazia? Si è tutti dentro la borghesia. Persino quello che una volta si chiamava proletariato è diventato borghesia. Bisogna avere il coraggio di distinguere. Ma nel fare delle distinzioni è necessario non confondersi.

Sosteneva Friedrich Nietzsche:

“Che cos’è nobile? Che cosa significa ancora, per noi oggi, la parola «nobile»? In che cosa si rivela, da che cosa si riconosce, sotto questo cielo pesante e coperto dell’incipiente dominio della plebe, per il quale tutto diviene opaco e plumbeo, l’uomo nobile? Non sono le azioni a dimostrarlo – le azioni sono sempre ambigue, sempre insondabili – non sono neanche le «opere». Tra gli artisti e i dotti se ne trovano oggi non pochi che, attraverso le loro opere, rivelano di essere spinti da profondo desiderio verso ciò che è nobile; ma proprio questo bisogno di ciò che è nobile è radicalmente diverso dai bisogni dell’anima nobile stessa, è addirittura un segno eloquente e pericoloso della sua mancanza. Non sono le opere, è la fede che decide qui, che stabilisce qui la gerarchia, per riprendere un’antica formula religiosa in un senso nuovo e più profondo: una qualche certezza di fondo che un’anima nobile ha su se stessa, qualcosa che non si può cercare né trovare e forse nemmeno perdere. L’anima nobile ha un profondo rispetto di sé”.

Il rispetto di sé!. Mi pare proprio ciò che in questa agonia è venuto meno. Ma nelle epoche abusate dalle democrazie non si ha più Rispetto perché si ritiene di adagiarsi su un egualitarismo che non può esistere.

Diceva bene Gabriele D’Annunzio:

“Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte”.

Il “diluvio democratico” moderno ha portato anche alla sconfitta dell’umanesimo della persona. È il rischio di un disfacimento e va oltre. Quando il buio diventa diluvio occorre ritornare alle aristocrazie e alle nobiltà. Bisogna avere il coraggio di non smarrire il senso delle Tradizioni e della Tradizione.

Soltanto recuperando l’identità della tradizione è possibile capire i destini e la storia, come, appunto, nel racconto dei Gaudinieri imparentati con i Bruni nella geografia fisica e umana del Regno di Napoli. È certo che da questa impalcatura, pur nella sua consistenza letteraria, il romano che meno può appartenere alla linea dei “Cinque fratelli” resta quello di Repaci. Mentre quelli maggiormente rappresentativi sono i romanzi di Tomasi di Lampedusa e di Mann.

Qui credo che si possa lasciare una strada aperta per un ulteriore capitolo che andrà successivamente a chiudere la saga di una famiglia nobile, aristocratica e borghese come, appunto, quella dei Bruni Gaudinieri. I tre percorsi ci sono tutti anche se domina il modello nobile – aristocratico. In fondo “È meglio un male sperimentato che un bene ignoto” (Tomasi di Lampedusa). Mi sembra molto suggestiva questa chiosa che separa, anche storicamente, comunque, due mondi: la nobiltà – aristocrazia e la borghesia.
Nell’anima si resta sempre ciò che si è stati. Il discorso è complesso. Ma chi è stato Gattopardo nei modi nei fatti nel silenzio resta sempre tale. Così per la famiglia Bruni Gaudinieri.

Tutto si perde. Tutto si ridisegna nella memoria attraverso la fedeltà. Il mito è rivelazione. Cesare Pavese scrisse il 18 febbraio: “18 febbraio del 1945: “Il ritorno degli eventi in Th. Mann (cap. Ruben va alla cisterna) è in sostanza una concezione evoluzionista. Gli eventi si provano ad accadere, e ogni volta accadono piú soddisfacenti, piú perfetti. Gli stampi mitici sono come le forme delle specie. Ciò che pare staccare questa concezione dal determinismo naturalistico è il fatto che i suoi fattori non sono la scelta sessuale o la lotta per l’esistenza, ma una volontà costante di Dio che un certo progetto si realizzi. Del resto, il modo di enunciare di Mann pare sottintendere che ciò che determina via via gli eventi è lo spirito umano che, secondo le sue leggi, li percepisce e fa accadere ogni volta sostanzialmente uguali ma piú ricchi. Un formalismo kantiano, calato nella materia mitologica, a interpretarla in modo unitario. C’è, qui dietro, Vico”.

Allora. Thomas Mann e Vico costituiscono l’asse portante di un destino in cui il tempo non è mai storia ma superamento della storia. Per diventare civiltà della memoria. Era nato 150 anni fa. Sono trascorsi 70 anni dalla morte. Lui moriva. Io nascevo.

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Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “ Francesco Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Incarichi in capo al  Ministero della Cultura

• presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;

• presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;

• segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse”, presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.

Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.

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