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.Luchino Visconti la definiva la “pososa“. Con la gestualità e le pose esptimeva la teatralità. Questa sua posa recitava interpretava. Eleonora Duse. Dirà Hesse: “La sua recitazione, anche quella delle mani, è favolosamente fine, sensibile e trascinante; la sua meravigliosa voce è capace di ogni sfumatura e riesce ad essere commoventemente infantile o far gelare il sangue nelle vene. La sua presenza sul palcoscenico è serrata, flessibile e, in ogni istante, di grande effetto plastico”.

Il teatro della Duse rompe con il melodramma e, in modo alferiano irrompe sulla scena del tragico soprannome con d’Annunzio. È d’Annunzio che dopo “Il trionfo della morte” lavora al personaggio divino di Eleonora Duse. Arrigo Boito con il melodramma è ben minima cosa di ciò che sarà il Vate. Entra sullo scenario una musica d’altro tenore. Da Beethoven alla alzatura dei toni e del suono.
Beethoven o Wagner. I Notturni di Chopin. Suoni d’incanto e di tragedia. Di malinconie. Le vite sono malinconie nel teatro di Eleonora Duse. Ma è anche una traversata. È una traversata.
Se pur di un tempo limitato lo spazio incontra sempre le ore. Piccole o grandi. Immense e lontane.
Disegnano sempre una distanza. Le ore. Sono quelle che non mutano tra un dire e un correre. Occorre vivere il mare per abitare le onde che si scagliano tra un desiderio e un destino.
Precisazione di un attimo tra una orchidea e un roseto in fiore. Infinito o indelebile il tempo che non ha voce ma voci che dal tramonto giungono a farsi notte.
Eleonora amava i linguaggi della musica. Si portava con sé sempre la maschera di Beethoven. Ma la musica è anche filosofia.
D’Annunzio forse non avrebbe scritto il suo “Trionfo della morte” senza gli altri e bassi di Wagner e senza l’indissolubile penetrazione di Nietzsche.
Quanto è contato Nietzsche in Eleonora Duse? Lo scavo di Chopin è nostalgia oltre che malinconia in Eleonora Duse. In questo però c’è il d’Annunzio della “Città morte”. Ovvero la grecità soffusa. Senza Gabriele Eleonora non sarebbe stata la tragica della Francesca da Rimini.
Con Martino Cafiero c’è la napoletanetà e il dolore. Cafiero fu realmente il primo amore con il quale ebbe un figlio che morì dopo due settimane.
Con Arrigo Boito, che non è assolutamente il “primo amore” c’è il melodramma che la Divina non accetterà mai e non accoglierà in nessuna sua ricerca. Il Verdi è di Boito.
Beethoven è nelle alzature dei toni e dei ritmi legandolo però, appunto, a Chopin. Con d’Annunzio si giunge al silenzioso dramma. Iorio e la Gioconda sono dramma ma sono anche musica. L’intermezzo è il verso. Il verso è silenzio però. Eleonora Duse recita e interpreta il Vate perché crede in quel linguaggio al punto di portarlo alla madre di Cenere della Deledda.
Anche qui il ritmo è alto sonante. E il sogno? Shakespeare è un passaggio inevitabile, ma quel sogno è la celebrazione del tempo che si misura lungo le movenze delle tende alle quali Eleonora si aggrappa.
Si pensi al sussurrare decifrabile della voce di Eleonora, la quale ha echi e suoni in un canto taciuto. Eleonora è un taciuto nel grido e un vissuto nella gestualità. Aspetto che non capì perché non capiva il teatro di poesia.
D’Annunzio comprese bene perché visse la poesia nella vita e nella parola. Tra i due, diciamolo con sincerità, Boito e d’Annunzio, chi vince il tempo nel tempo moderno è d’Annunzio. Cattura il linguaggio nel teatro. Boito non capì mai la poesia perché era infarcito di un melodramma che il Vate supera e che Eleonora non accoglie. Subentra però il senso greco della vita e del linguaggio. Infatti Eleonora incarna il mito.
Fu la grecità a legare il tragico al personaggio in Eleonora Duse, che recitò anche a Taranto. Era il 1895. Successivamente venne fondato anche un circolo dedicato alla Divina. Taranto vide la presenza di Irma e Emma Grammatica. Un’altra presenza importante fu Marco Praga, molto amico di Eleonora. Ma la città dei Due Mari conobbe una importante storia teatrale soprattutto con Cesare Giulio Viola che ha lavorato con il siciliano Turi Vasile.
Credo che Eleonora resti un riferimento non solo nella cultura teatrale tra fine Ottocento e i primi 24 anni del Novecento. Resta centrale nei processi letterari che hanno caratterizzato gli intrecci tra le varie arti.
Faccio un esempio. Il modello tragico che cerca nel mito il senso della parola nella lentezza malinconica della gestualità ha condizionato anche Corrado Alvaro nella sua “Medea”. Alvaro conosceva molto bene la “posa” del dolore di Eleonora.
Se si osserva con attenzione nello spartito dialogante della Medea alvariana si nota immediatamente che il tratto del passo e le pause sembrano dettate da una eredità interpretava che richiama chiaramente alla visione della metodologia scenica di Eleonora.
Il tempo che diventa spazio-tempo in Alvaro nasce dal personaggio lentezza-silenzio che ha portato sulla scena proprio Eleonora. Soprattutto quando interpretava cinematograficamente il romanzo di Grazia Deledda, ovvero “Cenere”. Una madre che porta sulle braccia la tragicità della morte.
Alvaro entra nel teatro proprio per rappresentare l’interpretazione del senso del dolore di una madre e lo fa con una meticolosa profonda grecità. Ma Alvaro era, d’altronde, uno studioso di Luigi Pirandello nel quale aveva spesso evidenziato l’interesse per il personaggio che “spacca” gli schemi usuali del teatro ottocentesco. Aspetto molto caro alla stessa Eleonora Duse.
Ad Alvaro, infatti, interessava il mito non tanto da rintracciare nella parola ma nei linguaggi del corpo. E su Pirandello guardava con molta attenzione al ruolo di Marta Abba. Altra significativa “combinazione?.
L’Alvaro che studiava Pirandello era attratto dal d’Annunzio de “La figlia di Iorio”.
Ma è con “Quella lunga notte di Medea” che Alvaro crea una corrispondenza di metaforiche visioni e immaginari con la Duse e attraverso la sua sensualità dolorante tocca le “sponde” dannunziane del superamento del reale.
Una pagina tutta ancora da scrivere e che certamente andrà scritta. Dopo il volume “Undulna”, Solfanelli editore, seguiranno altri approfondimenti riguardanti la Divina e il tragico mediterraneo. Infatti Rosso di San Secondo parla proprio di Eleonora Duse e il mito. Ofelia Mazzoni dirà “La maschera comica si confaceva quanto la tragica al suo viso bene scalpellato, dai muscoli fattisi elastici e sodi nell’esercizio dell’arte, dalla fronte virile, dagli occhi vasti e balenanti, dai denti forti, ben piantati, luminosi, intatti, com’è raro vedere nella maturanza dell’età”. L’età e il tempo saranno punti di riferimentio nel magico cerchio che aveva dato alla “pososa” stile, eleganza e mistero.

Pierfranco Bruni è nato in Calabria e vive tra Roma e la Puglia. Scrittore, poeta, italianista e critico letterario, già direttore archeologo presso il Ministero della Cultura. Esperto di Letteratura dei Mediterranei, vive la letteratura come modello di antropologia religiosa. Ha pubblicato diversi testi sulla cristianità in letteratura. Il suo stile analitico gli permette di fornire visioni sempre inedite su tematiche letterarie, filosofiche e metafisiche. Si è dedicato al legame tra letteratura e favola, letteratura e mondo sciamanico, linguaggi e alchimia. Ha pubblicato oltre 120 libri, tra poesia saggistica e narrativa. È presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”. Ricopre incarichi istituzionali inerenti la promozione della cultura e della letteratura. Quest’anno con decreto del Ministero della Cultura Mic , è stato nominato Presidente della Commissione per il conferimento del titolo di “Capitale italiana del Libro 2024“. Recente è inoltre l’incarico assegnato sempre dal Mic di Componente dellaGiunta del Comitato nazionale per il centenario della morte di Eleonora Duse (21 aprile 1914 – 21 aprile 2024) e direttore scientifico nazionale del Progetto Undulna Duse 100.
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