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LEONARDO SCIASCIA E IL CINEMA

   Milano, 22 febbraio 2021 – Continua, da parte di Paolo Squillacioti, il “recupero della produzione saggistica dispersa (e dunque non inclusa nelle Opere)” di Leonardo Sciascia, per conto dell’Editore Adelphi. In Questo non è un racconto (Adelphi Ed., MI, 2021) vengono raccolti gli “scritti per il cinema e sul cinema”, a cominciare da tre trattamenti, se non proprio inizi di sceneggiature, rintracciati dalla famiglia e destinati a Carlo Lizzani, Lina Vertmΰller e Sergio Leone. Nel primo, una madre racconta al giudice quanto sa sull’omicidio del marito e del figlio, in una Palermo descritta tra scene di ‘Vucciria’ e interni di drogheria. Più interessante è il secondo, dove una ragazza – che aveva assistito all’omicidio di un uomo – viene mandata dalla famiglia a Milano, per sottrarla alla ‘caccia’ da parte dell’assassino, ma quando l’aereo, per la nebbia, atterra a Genova, costei si reca dai carabinieri e racconta tutto: verrà fatta considerare dai suoi parenti “neurolabile” e poi pazza.

Paolo Squillacioti – Leonardo Sciascia

Nel terzo, c’è un’ambientazione statunitense nel 1925 (forse richiamando il C’era una volta di Leone del 1968), con continui scarti fra memoria e attualità. Sono memorabili gli affioramenti culturali tipicamente sciasciani che via via emergono: il titolo innanzitutto, che è ripreso da Diderot e che è quello che il curatore dà all’intera raccolta; una casetta che richiama l’ariostesco parva sed apta mihi; un uomo che tinge di verde una staccionata, come quello di una stampa a colori di Jean-François Raffaëlli (con la frase “non sono un amatore di stampe”, che antifrasticamente designa la stesso Sciascia); una frase di Machiavelli da una lettera dedicatoria a Lorenzo di Piero de’Medici; infine il manzoniano “addio monti sorgenti dalle acque”. Notevole è qui anche la “descrizione sommaria […] di un ambiente non molto diverso di quello di un quartiere popolare di Palermo: quella specie di gran pavese della miseria che è, nei paesi mediterranei, la povera biancheria stesa ad asciugare appesa a corde che si tendono da un lato all’altro della strada” (p. 44).

   Per quanto riguarda gli scritti sul cinema strictu sensu, afferma il curatore che “il filo rosso che attraversa questo libro è il ricordo: del cinema della giovinezza, di atmosfere irripetibili, e di attori e registi che se n’erano andati, lasciando come traccia indelebile la loro immagine sullo schermo” (p. 158). Non legata alla memoria è tuttavia la recensione che Sciascia dedica a due libri di un italiano che viveva a Parigi, Lo Duca, sull’erotismo nel cinema (del 1957 e 1958), peraltro non in vendita in Italia per motivi di censura (con un’ampia digressione sulla censura in sé, dove viene scomodato il latino Catone e Marziale che lo prende in giro). Con questa zampata finale: “La mente puritana dell’America è ossessionata dal sesso […]. Non per niente nella donna l’americano cerca l’ipertrofia mammaria. Bisogna riconoscere che c’è una bella differenza tra le proporzioni di una Venere greca e quelle di Jayne Mansfield […]. Segno che l’Europa è ancora attaccata alle sue Veneri, mentre l’America cerca le sue balie” (p. 64). Anche il saggio Dal soggetto al film prende spunto da una nuova collana cinematografica dell’editore Cappelli, diretta da Renzo Renzi, e concerne l’autonomia dell’opera cinematografica rispetto a quella letteraria: “Una opera cinematografica […] riesce a un risultato artistico, o fallisce, soltanto per merito, o demerito, del regista. […] Perciò riteniamo che un regista che abbia da esprimere poesia o giudizio sul mondo, che abbia una originale visione della vita, che insomma sia artista, non debba mai misurarsi con opere già complete nella loro forma letteraria […]. Nessuno ha saputo, né saprà mai, dare una versione cinematografica di buon livello artistico di una grande opera letteraria, o comunque di una opera letteraria che abbia, dentro i propri limiti, originalità ed autonomia” (p. 68). Esempio negativo considera il Bell’Antonio di Bolognini, tratto da Brancati (nel quale l’impotenza del personaggio era il simbolo dello stesso regime fascista).

   Rientra invece nel flusso di memoria il ‘mito’ di Gary Cooper: “Anche Gary Cooper se n’è andato. Il cielo dei nostri miti, di noi che avevamo vent’anni quando le armate di Hitler dilagavano in Europa, malinconicamente si spopola. […] Gary Cooper se n’è andato: ultimo simbolo dell’altra America, dell’America che abbiamo amato. La terra dell’omerica epopea della frontiera, della statua della Libertà, di Fenimore Cooper, di Franklin Delano Roosevelt: l’America primo amore di Soldati, l’America di Vittorini, di Pavese, di Pintor” (p. 71). E paragona l’immagine dell’attore scomparso a quella del sergente della divisione Texas che, in un meriggio dell’estate 1943, entrava con la sua pattuglia in un paese della Sicilia: “Nella nostra memoria il sergente dell’esercito americano che cammina al centro di una strada deserta, in un paese siciliano che un’ora prima aveva visto con muta paura, con dolorosa apprensione,due ufficiali tedeschi fermarsi a consultare le loro carte […], il sergente americano della divisione Texas si confonde all’immagine di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco: l’uomo che avanza a ristabilire il diritto, la legge, la dignità e la libertà degli uomini” (p. 72). Peraltro, in una lettera al critico Guido Aristarco, rimprovera che Visconti, nella resa cinematografica del Gattopardo, avesse tramutato il personaggio di don Fabrizio da “uomo classico a uomo decadente”. E ribadisce, contro coloro che l’avevano accusato di aver parlato male del romanzo: “Io non avevo detto male del Gattopardo: m’ero limitato a opporgli la realtà storica della Sicilia; di fronte alla quale gli alibi esistenziali del principe di Lampedusa, e della sua classe, non reggevano. Ma non m’era sfuggito, di questi alibi, il fascino, la poesia: che soprattutto risiedono nel personaggio di don Fabrizio, nella sua olimpicità e ‘superiorità’, nella sua essenza di uomo classico” (p. 76). Polemizza anche con Germi che, in Sedotta e abbandonata, aveva dato della Sicilia un”ragguaglio piuttosto arretrato e, in qualche tratto, nel film, addirittura immaginato” (p. 80).

   Nella sua memoria identifica i personaggi di Casanova e di Mattia Pascal nella resa che ne fece l’attore Ivan Mosjoukine (1889-1939: Sciascia usa la grafia francese invece di quella russa “Mozžuchin”) nei rispettivi film, all’epoca del muto. E tesse poi un’elegia a Clara Bow, Buster Keaton, Charlot, Harold Lloyd, Ridolini: tutti i grandi interpreti del cinema muto che lui vedeva fra il ’26 e il ’33. E quando muore René Clair, trovandosi a Parigi, si reca al suo funerale, anche se poi la cerimonia venne anticipata e lui non può che ricordare il film Entr’acte: “di leggera fantasia, di felice ritmo, di surreale libertà e in cui un funerale diviene, appunto, fantasia e ritmo, fuoco d’artificio di azioni che scattano una dall’altra con surreale consequenzialità” (p. 93). Sul divismo nel cinema cita il capitolo di Dos Passos, da The big money, dedicato al funerale di Rodolfo Valentino; mentre, sempre nel cinema muto, ritiene che Erich von Stroheim abbia creato il tipo “dell’ufficiale austriaco che ha dietro di sé il crollo di un impero”.

   Non può che polemizzare sul film che Cimino ha girato sul bandito Giuliano (Il Siciliano) perché, a differenza di quanto aveva fatto Francesco Rosi, aveva creato un “falso mito”, quello del vendicatore, del giustiziere. Contrariamente a quanto affermava Bergson nel suo saggio Il riso, dove il comico derivava dai gesti di un essere umano simili a un meccanismo, la comicità di Angelo Musco apparteneva “alla vita nella sua ricchezza e imprevedibilità, fa ridere senza essere, per come risulta nel comune significato della parola, ridicoli” (p.116). E sarà lui stesso infine a riconoscere che ”fin verso il 1960, a partire dagli  anni del cinema muto, di films ne ho visto tanti: spesso due in una sola giornata. Il cinema è dunque per me, oggi, soltanto memoria: con tutte quelle decantazioni, trasformazioni e inganni che nella memoria accadono” (p. 118).

   L’ultima sezione del libro è dedicata alle varie rese cinematografiche che sono state fatte delle stesse opere di Sciascia, per le quali, come notava Antonio Di Grado, si può dire che la sua opera “sconta un ambivalente destino cinematografico che varia dall’illustrazione allo stravolgimento, dall’appiattimento commerciale all’altrettanto irrispettosa riscrittura d’autore” (p. 155). Ma sarà lo stesso Sciascia che, quando vedrà I ragazzi di via Panisperna di Gianni Amelio, affermerà che il film ha una sostanziale fedeltà all’idea per cui aveva scritto il racconto La scomparsa di Majorana.

LEONARDO SCIASCIA,  “Questo non è un racconto”, Adelphi Ed., MI, 2021, € 13,00.