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Diffamazione, infiltrati e spie. Così Filippo il Bello ingannò i Templari

Tutto accade in un gioco di spie che centrano il bersaglio al momento giusto. Notizie vere si mischiano a dicerie, carte segrete e messaggi falsi viaggiano di notte, facendo in gran segreto la spola tra la corte e la curia, mentre vanno in scena informatori decisi a tutto pur di carpire segreti per capovolgere il finale della storia. Avide trame di Re insieme alla confessione misteriosa del Gran Maestro Jacques de Molay prendono nuovamente carne nel nuovo, affascinante libro di Barbara Frale, Secretum. Il ruolo degli informatori nel processo ai Templari (prefazione di Franco Cardini, ed. Nuova Argos, Collana ‘Segreti’ diretta da GFL, pp. 230, euro 10, illustrazioni a colori. Per info: datdonatdicat@pec.it [1]). Nel pamphlet che si fonda su documenti in gran parte inediti, la storica, Officiale presso l’Archivio Segreto Vaticano, mostra piste finora non battute nella ricostruzione delle vicende del più potente Ordine del Medioevo cristiano.

Il processo ai Templari, per gli storici “il primo processo politico dell’età moderna”, si ordì e si mosse in un ginepraio inestricabile di informazioni e controinformazioni. Un labirinto nel quale stanno insieme le tavolette di legno spalmate con la cera dei monaci guerrieri rinchiusi nelle prigioni reali e l’oscuro complotto di Filippo il Bello, che vuole mettere le mani sul tesoro del Tempio. A far pendere la bilancia dalla parte dei sovrani sono gli informatori che si rivelarono decisivi nel processo che decretò la fine dei Cavalieri del ‘Non nobis Domine’. Oltre al flusso d’informazioni attestato dalle fonti più note, “infatti, esistono anche sequenze di messaggi dei quali possiamo solo rilevare l’esistenza”, perché gli autori “furono così cauti e sibillini che le loro comunicazioni restano tuttora insondabili dopo bene settecento anni”. Come nel caso di Arnaldo da Villanova, al quale la tradizione attribuisce occulti trattati di alchimia. “Non molti giorni fa – scriveva a Giacomo II il medico che insegnò alle università di Montpellier e Salerno – ho lanciato al signore il papa alcune saette terribili capaci di perforargli il cuore, se saprà capirle”. Si trattava di notizie riservate e dolorose per il pontefice, tanto da essere ‘sagitas acerbissime perforantes cor eius’. Cosa nasconderà la testimonianza oculare del domenicano Romeo di Brugaria o la quadam cedula di cui parla l’Avignonese 48?

Il 13 ottobre 1307 cadeva di venerdì. All’alba un drappello di soldati si presentò all’enclos du Temple, la grande magione fortificata che i Templari possedevano subito fuori le mura di Parigi, per arrestare tutti i frati. L’accusa era la più infamante che si potesse pensare per un Ordine militare e religioso: eresia. La ‘Milizia dei poveri commilitoni di Cristo e del Tempio di Salome’ veniva accusata di aver tradito la fede. L’accusa comportava il sequestro del patrimonio dell’imputato. Non a caso Dante Alighieri nel suo ‘Purgatorio’ accusò il Re di Francia di aver distrutto il Tempio per pura avidità, mettendolo ‘a specchio’ con Ponzio Pilato. La crisi finanziaria in cui versava il regno, insieme all’abilità pubblicistica di Guillaume de Nogaret, giurista e Cancelliere del sovrano, trasformarono una diffamazione – fake news, diremmo oggi – in una verità creduta dal popolino, dando origine alla ‘leggenda nera’ dei Templari che avrebbero sputato sul Crocifisso e baciato le terga del superiore anziano, in un rituale d’ingresso al Tempio dei nuovi membri che nei fatti era solo una rappresentazione cameratesca per imitare le violenze che potevano attendere i Cavalieri caduti prigionieri dei Saraceni in Terrasanta.

Il Gran Maestro Jacques de Molay fu ucciso al calar della notte, su un’isoletta al centro della Senna, ultimo tragico atto di un procedimento che si era aperto sotto il segno dell’illegalità. Fino all’ultimo respiro lottò, invano, per essere ascoltato dal Papa. I segreti dei Templari, in realtà, “non erano esoterici bensì organizzativi e bancari”. Mentre i ferri battevano alle mani dei Cavalieri, il quasi ottantenne papa Clemente V si trovava nelle campagne di Poitiers, per una terapia depurante. Solo a lui i Templari dovevano obbedienza, eppure la notizia del loro arresto colse il pontefice impreparato. Poté interrogare i monaci solo alla fine del giugno 1308 ma era già tardi perché se il successore di Pietro non aveva mai autorizzato la cattura dei Templari, i malcapitati Cavalieri rinchiusi in carcere e sottoposti al giro di corda delle torture, finirono per confessare di tutto, dando materia di accusa ai notai di Filippo che riportarono le testimonianze strappate con la violenza. “La macchinazione, che è trama familiare all’intelligence del passato e sopravvive in quelle oscure diplomazie che sottendono a guerre non dichiarate, sfrutta in tutte le dirompenti conseguenze anche un dettaglio in sé modesto, e così esso diviene prezioso e potenzialmente esplosivo se inserito in un contesto opportuno”

In realtà, scrive Barbara Frale, “l’attacco era la conseguenza di una strategia pianificata da tempo: un ordine regio, diramato in segreto con un mese d’anticipo, autorizzato nell’abbazia di Maubuisson presso Pontoise il 14 settembre 1307 prevedeva che si accertasse preventivamente il numero dei frati guerrieri residenti in ciascuna precettoria perché, quando l’ordine di cattura fosse stato diramato, un numero congruo di armati potesse piombare in ciascuna sede e sedare ogni eventuale resistenza da parte dei presenti”. Filippo fece entrare nel Tempio “dodici spie che, divenute frati, si misero a raccogliere minuziosamente quanto potesse essere funzionale al complotto del Re”. La macchinazione fu rivelata al pontefice dallo stesso avvocato regio, Guillaume de Plaisians. In un momento precedente l’arresto, il sovrano di Francia si era servito anche di Esquieu de Floyran, un templare (di cui ha tanto scritto Franco Cuomo) un tempo priore di Montfaucon, poi defezionista, per raccogliere scottanti testimonianze sulle mancanze degli ex confratelli. Ed è ancora lo spretato Cavaliere che chiede a Giacomo II una rendita di mille libbre e tremila libbre in denaro prese dai beni sequestrati all’Ordine. Ma il sovrano D’Aragona aveva spie efficienti: “Poteva contare su un complesso ed efficace dispositivo d’intelligence costituito da agenti qualificati, inseriti in ruoli chiave nelle corti o nella Curia papale – così da accedere a informazioni sensibili e di prima mano senza subire passaggi intermedi – sia di osservatori, ‘sensori’, corriere, impiegati, marcanti, viaggiatori legali, chierici – che facilitavano il riscontro informativo e la comunicazione riservata e affidabile”. Così Cristiano Spinola, mercante ligure al servizio segretamente di Giacomo II d’Aragona scrisse al sovrano che “il sommo pontefice e il re lo fanno per avere il denaro dei Templari e anche perché vogliono costituire un ordine solo unendo insieme i Templari e gli Ospitalieri, dopo di che il re di Francia metterà uno dei suoi figli a capo di questo ordine unificato. I Templari però su questo punto non vogliono acconsentire”. Ma la breccia era ormai aperta e l’Aragona non intendeva rinunciare alla propria parte di bottino, pronto a spartirsi con Filippo la tunica dell’Ordine e le casse dei monaci-banchieri.

In questa scacchiera è risultata strategica l’attività d’intelligence che sempre allunga il campo alle decisioni politiche: “L’infiltrazione nelle strutture nemiche per conoscerle nel profondo e svelare quegli interna corporis che si prestino a dubbie interpretazioni e che possano facilitare la più ambigua macchinazione”, ma anche “l’uso di fonti differenziate, da agenti attivi ad altri dormienti, resuscitati all’occorrenza, a defezionisti interessati quanto utili, a sensori conoscitori dell’ambiente da osservare, a corrieri e depistatori capaci di diffondere e legittimare notizie non confermabili”. Il processo ai Templari passò anche attraverso l’abile scelta di informatori che portarono a dama la loro missione. Vinsero quelli che seppero utilizzare meglio le informazioni – vere o false – raccolte nel dossier contro i Templari: Filippo il Bello e Giacomo II. Il primo ideò la trama, il secondo sfruttò gli eventi. Entrambi seppero garantirsi sicuri vantaggi economici dalla macchina del fango avviata contro il potente Ordine. E il Papa? Clemente V non riuscì a gestire la crisi, rimanendo “vulnerabile all’attività di spionaggio francese e aragonese”. L’ordito contribuì a creare il mito dei Templari, affascinanti monaci-guerrieri in ogni tempo della storia. Anche questo, a suo modo, è effetto delle trame dell’intelligence, “che finiscono per avere vita propria e non si sciolgono con il tempo, dando luce alle vittime e ricadendo sui persecutori macchiandoli di sospetto”.

Ha perciò ragione Franco Cardini a scrivere nella prefazione al volume: “Diffidate pertanto della limpida, lineare, elegante esposizione del problema che Barbara Frale vi offre; cercate di sottrarvi alla sua magia formalmente cartesiana, alla sua chiarezza e distinzione. Se ne diffiderete, d’altronde, farete in effetti il suo gioco. Il suo racconto tende a dimostrarvi che niente è mai quel che sembra, che per ogni problema esiste sempre una soluzione semplice ed è regolarmente quella sbagliata […] Frale v’invita a seguirla su una strada che pare un bel rettifilo, ma vi guida in realtà all’interno di un labirinto. Cercate i segreti, siete assetati di mistero? Voilà, servitevi: a patto d’imparare che i segreti non sono mai quelli che sembrano esserlo; che il mistero non è tale perché non si lascia risolvere ma perché non si lascia vedere, non vuol mai farsi riconoscere per quello che è. Buona lettura, cacciatori di enigmi”.