La Corrispondenza fra V. Consolo e L. Sciascia

di Sergio Spadaro - critico letterario

Milano –  Sono state pubblicate, con filologica acribia a cura di Rosalba Galvagno dell’Università di Catania, le lettere che Vincenzo Consolo (n° 21) e Leonardo Sciascia (n° 29) si sono scambiate dal 1963 al 1988. Il volumetto (Essere o no scrittore, Archinto, MI, 2019) è uscito a ridosso del convegno internazionale di studi che l’Università di Milano ha dedicato all’opera di Consolo nei giorni 6 e 7   marzo. La prima missiva è quella di Consolo a Sciascia del 6 dic. 1963, con la quale gli inviava La ferita dell’aprile, uscito  nel settembre di quell’anno nella mondadoriana collana “Il tornasole”, per “riconoscenza per la parte che hanno avuto i Suoi libri nella mia formazione” (p. 5). Sciascia lo  legge subito e gli risponde entro il mese, e gli chiede “quali sono i luoghi del suo racconto”, nonché di avere ragguagli su “quelle particolarità storico-linguistiche” del libro. Anche Consolo entro il mese, gli comunica  che “i luoghi del racconto  sono, in generale, quei paesi di collina sotto i Nebrodi e altri, giù, della marina”, e che il suo era stato fondato ,”circa un secolo e mezzo fa”, da catanesi scesi dall’interno (p. 20). Quanto   ai vocaboli dialettali, erano quelli degli zangrei di S.Fratello. Ma precisa che le notizie sui paesi “non sono frutto di una indagine storica” e che per il barocco di “certi toni del racconto” si  era ispirato a Barcellona Pozzo di Gotto (p. 20). In definitiva, c’è un pudore iniziale in Consolo (che si scioglierà a poco a poco): infatti che il liceo di cui si parla nel libro fosse nella realtà quello di   Barcellona, lo sappiamo da questa testimonianza di Emilio Isgrò: “Dell’istituto Luigi Valli era allievo più o meno alla metà degli anni Cinquanta Vincenzo Consolo. Veniva da Sant’Agata di Militello e già faceva l’ultimo anno di liceo quando io entravo al ginnasio. Ricordo che arrivava a Barcellona sul camion dell’azienda agrumaria ""di famiglia – lui così piccolo autorevolmente piazzato in cabina accanto all’autista – e subito si dirigeva impettito verso la casetta di fronte alla chiesa dei santi Cosma e Damiano, dove un’anziana vedova vestita di nero l’aveva preso a pensione. Il povero Enzo, come noi accorciavamo il Vincenzo, veniva additato da professori e bidelli come uno studente modello, e questo ci metteva in urto con le nostre coscienze di giovani sciatti e svogliati. Anche perché Consolo, una volta disceso dalla cabina del camion, diventava di colpo più dolce e dimesso, e questo ce lo rendeva più gradevole e caro” (Autocurriculum, Sellerio, PA, 2017, p. 21).

    Giustamente sottolinea la curatrice che “caduta l’iniziale barriera formale  subentra quindi in queste lettere la confidenza diretta e spontanea, che non censura i problemi di salute o quelli legati alla famiglia e  soprattutto al proprio lavoro. Insomma, la corrispondenza, in un primo momento prevalentemente letteraria, si fa anche biografia del quotidiano “ (come a esempio per l’acquisto dell’olio d’oliva santagatese da parte di Sciascia, per gli esami delle figlie, per l’attività di insegnante di Consolo fra Mistretta e Patti) (p, 9). Proprio frequentando la biblioteca comunale di Mistretta Consolo s’imbatte nella traduzione dell’Eneide in siciliano da parte di Tommaso Aversa (1654), che aveva indirizzato – fra gli altri – una supplica a Simone Rao e Requesens (rectius, e non con la “z” finale), che sarà nominato vescovo di Patti e sul quale Sciascia scriverà il noto saggio  Il vescovo a Tindari (in La corda pazza, Einaudi, TO, 1970, pp. 51-54). Questa controversa figura di delatore – probabilmente un agente provocatore, come dirà Sciascia – intrigherà molto i due corrispondenti, soprattutto per la produzione di versi in ‘toscano’, in latino e in siciliano. Per dare un’idea delle sue liriche amorose, si riportano alcuni verso dialettali: “Ardu, e non speru chiù nuddu ricriu; / Né mi giuva disdegnu, o lontananza. / […] Tantu chiù focu pigghia lu disiu, / Quantu chiù va siccandu la speranza” (Canzuni siciliani, n° 40, vv. 1-2/7-8, dall’opera del 1672 ripubblicata da Mons. Francesco Pisciotta nel 2007, presso la Tipografia Trischitta di Messina).

   Quanto ai rapporti con Lucio Piccolo – tramite Consolo venivano reciprocamente inviati i saluti fra lui e Sciascia – Consolo dirà: “Alla fine, feci in modo di far incontrare il poeta e lo scrittore, così antitetici, così lontani l’uno dall’altro: due archetipi per me, due cifre letterarie che ho cercato, nella mia scrittura, di far conciliare. L’incontro avvenne una domenica, la domenica in cui per la prima volta si celebrava nelle chiese la messa in italiano” (p. 11). In nota la curatrice riprende la data dell’incontro, il 7 marzo 1965 (come in Cronologia, nel “Meridiano” a lui dedicato riporta  Gianni Turchetta, p. CXI), che in realtà avvenne il 14 settembre 1966, perché la gita della famiglia Sciascia, da Catania a Capo d’Orlando, fu organizzata per mezzo dello scrivente, che portò con la propria auto gli Sciascia attraverso il percorso Fiumefreddo-Linguaglossa-Randazzo-Capo d’Orlando (“Paeseitaliapress”del 30.9.2015, ora in Il movimento e le soste, Ismecalibri, BO, 2017, p. 85). Né questa è stata la sola volta che la pur straordinaria memoria di Consolo subisse una  défaillance:  ciò avvenne anche per la data della prima volta che Consolo visitò Selinunte (cfr. il nostro Lontananze e risacche, Ismecalibri, BO, 2014, pp. 136-138).

   Aggiunge Galvagno: “Oltre all’interesse letterario e storico per la Sicilia dei secoli XVII, XVIII e XIX Consolo e Sciascia dichiarano anche di condividere l’amore per Parigi, un mito incrollabile, com’è noto, per molti aristocratici e intellettuali siciliani a partire già dal Settecento, e che scandisce a più riprese, tra il 1976 e il 1988, questa corrispondenza” (p. 11). Per poi concludere: “Numerose altre curiosità letterarie  e aneddoti biografici riserva naturalmente la lettura integrale di questo prezioso carteggio, che condensa la vita e il lavoro di poco meno di un trentennio di due fra i più grandi scrittori del Novecento, offrendo uno spaccato singolare del contesto non soltanto letterario ma più profondamente antropologico dei due corrispondenti, un contesto da un lato fortemente radicato nell’arcaismo della cultura siciliana, dall’altro incredibilmente aperto  al- l’Europa (alla modernità). Ma questo apparente, fecondo e affascinante contrasto costituisce, com’è noto, l’originalissima cifra della grande letteratura siciliana classica” (p. 12).

    Tra le ‘curiosità’ e gli ‘aneddoti’ non si può non riportare le volte che Consolo ha partecipato a premi letterari, più che altro per insistenza di Sciascia: a Soverato  (1964), a Castellammare (1965), a Grosseto (1966). E quando a Soverato non gli fu assegnato il premio, ma una medaglia commemorativa, commentò con la sua feroce ironia che si trattava di una “cucurbitacea” (peraltro furono altri, e più prestigiosi, i riconoscimenti che ebbe successivamente, come si evince dalla Cronologia di Gianni Turchetta nel “Meridiano” mondadoriano del 2015.

   Ma sono più le dichiarazioni di stima e d’affetto reciproche che giova ricordare.  Come quando Consolo scrive a Sciascia: “A ogni tua nuova ‘cosa’ riprovo sempre lo stesso piacere di tanti anni fa quando, chiuso fisicamente e di ‘testa’ nel mio natio borgo scipito, leggevo i tuoi primi libri e mi aprivo e apprendevo da questo mio scrittore e siciliano ideale del cuore della Sicilia. Non sorridere  – nel tuo modo agghiacciante – di questa dichiarazione d’amore. La quale ora, del resto, si confonde tra quelle di chissà quanti altri” (lettera del 18.4.1967). O quando Sciascia rievoca l’amicizia di Consolo e Piccolo: “Tutto, in com’è Consolo e in com’era Piccolo, li destinava a respingersi reciprocamente […]. Il fatto è che tra loro c’era una segreta, sottile affinità: la  sconfinata facoltà visionaria di entrambi, la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia” (ora in Cruciverba, Einaudi, 1983, pp. 32-33). O abbina i due ‘baroni’, quello reale e quello letterario di Consolo: “E facilmente viene da pensare […] che nel personaggio del barone Mandralisca lo scrittore [Consolo] abbia messo quel che mancava all’altro barone da lui conosciuto e frequentato, a quell’uomo che aveva ‘letto tutti i libri’   e soltanto due, esilissimi e preziosi, ne ha scritti di versi: la coscienza della realtà siciliana, il dolore e la rabbia di una condizione umana tra le più immobili che si conoscano” (Ivi, p. 34). E Consolo avrà infine anche modo di scrivere questa dichiarazione, quasi un’autoconfessione per la sua diversità di scrittore: “A leggerti, io che ambisco, sia pure in modo non assiduo, praticare la scrittura, sento come un senso di colpa di non essere lucido e ‘laico’ come tu insegni che bisogna essere; di non aver saputo ancora del tutto domare i personali furori e torpori, di essermi fatto spesso distrarre dagli ornamenti nella visione della nuda realtà” (lettera del 15.10.1978).

 

VINCENZO CONSOLO – LEONARDO SCIASCIA, Essere o no scrittore, a cura di Rosalba Galvagno, Archinto, MI, 2019, € 14,00.

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