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Roma. Dialoghi: Rohingya, il dramma di un popolo in fuga

Roma – Il 14 dicembre, la sede di Medici Senza Frontiere di Roma ha ospitato un incontro, in collaborazione con il settimanale “Internazionale”, di approfondimento su una crisi umanitaria che ha iniziato ad avere risonanza mediatica in Occidente soltanto negli ultimi mesi: la crisi dei Rohingya.

Il dibattito ha visto la partecipazione di alcuni esperti del settore tra cui il giornalista Emanuele Giordana, il direttore generale di MSF Gabriele Eminente e il Segretario generale di Italia Birmania Insieme Cecilia Brighi. Inoltre, grazie alla diretta streaming, è stata resa possibile la partecipazione attiva al confronto di un nutrito gruppo di persone.

Durante l’incontro sono state affrontate le problematiche legate alle forti migrazioni di Rohingya dal Myanmar al Bangladesh, dovute alle repressioni fisiche e giuridiche del governo birmano, della crisi umanitaria in corso nello stato del Rakhine (regione del nord ovest del Myanmar) e nello stato di Chittagong (regione del nord est del Banglasdesh), compresi i campi per rifugiati, ufficiali e non, e sulle contaminazioni degli estremisti islamici all’interno dei movimenti di resistenza dei Rohingya.

Su quest’ultimo punto si sono concentrati i principali diverbi, a discapito di un’analisi approfondita delle cause di origine di tale crisi umanitaria e in linea con gli ultimi trend politici che ricercano le ragioni di ogni situazione critica nel terrorismo islamico. Infatti, l’Arsa (Esercito di Arakan per la salvezza dei Rohingya) è stato da subito additato dalla relatrice istituzionale come altamente pericoloso e problematico, tendente ad assumere le forme e il modus operandi dell’ISIS. Una tesi in linea con le giustificazioni del governo Birmano di repressione dei musulmani e, fortunatamente, contrastata dal giornalista Giordana, il quale ha tenuto a precisare l’inadeguatezza qualitativa e quantitativa di tale movimento di resistenza, ben lungi dall’assumere le sembianze di un’organizzazione terroristica.

Ad ogni modo, questa tendenza a focalizzarsi quasi esclusivamente sul problema terroristico rispecchia le azioni (rectius, inazioni) dei governi nazionali delle Nazioni Unite che a differenza di Libia, Siria, Iraq, Afghanistan o, tornando ancor più indietro nel tempo, Rwanda, dove probabilmente risiedevano interessi economici e politici importanti, non trovano nel Myanmar un equivalenza e una comunione di intenti. Le resistenze di Cina e Russia sono rilevanti in questo contesto, ma non decisive. D’altronde, più volte i paesi occidentali sono intervenuti stante la mancata collaborazione dell’ex blocco comunista.

In questa situazione, appare palese la mancanza di volontà di intervenire concretamente per risolvere il dramma dei Rohingya. Ciò è testimoniato dalle risposte istituzionali che vedono la risoluzione del problemain una non meglio definita, e a tratti fumosa, collaborazione di tutte le organizzazioni civili e internazionali, senza giungere alla definizione di una reale soluzione. A questo si aggiunga anche l’invettiva verso i paesi arabi e islamici, ritenuti inermi prima e collaborazionisti oggi, esclusivamente per ragioni legate all’estremismo religioso, e che giustificano ed esimono totalmente i paesi occidentali dall’intervenire, riducendo la crisi a un problema di rilevanza religiosa, anziché umana.

È necessario studiare approfonditamente le ragioni alla base di questa crisi, abbandonando i classici stereotipi legati alla religione, focalizzandosi sull’intolleranza e la repressione di un popolo definito dalle stesse Nazioni Unite (UNHCR) nel 2012 come “il popolo più discriminato al mondo”. È un atto di coerenza e di profonda umanità necessario per affrontare questa sfida concretamente. Questo dibattito ha perso l’occasione di uscire fuori dal circolo della violenza delle parole legate alla religione. Ma ha comunque avuto il coraggio di affrontare il problema. È un inizio. Non può ridursi a un mero momento di discussione, ma evolversi in qualcosa di più grande e incisivo. Perché la crisi dei Rohingya non finirà domani. Il tempo che necessiterà dipenderà dal modo in cui verrà affrontata e se veramente sarà considerata con serietà dai governi mondiali. Perché la crisi dei Rohingya non ha avuto inizio nell’agosto 2017, ma 65 anni fa, nel 1962 con il golpe militare e l’inizio della discriminazione ritenuta da alcuni un “lento e incessante genocidio”.

Ma questa è (un’altra) storia.