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CAPRONI, IL MITO E L’ATEOLOGIA POETICA

   Quest’anno, tra i temi dati per la prova d’italiano alla maturità classica, ce n’era uno sul poeta Giorgio  Caproni. Ma l’indomani, nei commenti apparsi sulla stampa, la maggior parte verteva sul “chi era costui”di manzoniana memoria, dimostrando – se mai ce ne fosse stato bisogno – la condizione di totale ignoranza della nostra scuola pubblica o, quantomeno, il suo stato di arretratezza culturale. Eppure Caproni era almeno da affiancare a Montale per quanto riguarda la poesia italiana del Novecento, come aveva fatto a suo tempo (1982) Giovanni Testori, che sostenne come Caproni avesse fatto toccare alla nostra poesia uno dei suoi vertici, che era insieme una vertigine: se Montale era rimasto fermo al ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, vale a dire a un relativo scetticismo, la negazione di Dio caproniana era stata invece un ultimativo corpo a corpo con lui, che aveva fatto superare di colpo ogni “rischio” ontologico e portato la questione sul “bordo ultimo ed estremo della pagina”.

   Queste preliminari considerazioni ci vengono in mente nel presentare un volume di critica caproniana di  Elvira M. Ghirlanda, ricercatrice presso l’Università di Messina, dal “taglio” particolare: Giorgio Caproni, poeta del mito (Pungitopo Ed., Gioiosa Marea [ME], 2017). Sostiene infatti Ghir landa che “il rapporto che il simbolo instaura tra significante e significato ha la potenza di passare attraverso l’immagine, rendendo paradossalmente meno arbitrario il legame tra essi” (p. 9). L’autrice fa giustamente risalire al volume d’esordio, Come un’allegoria (1932-1935), il “presupposto poetico a cui in séguito si appoggeranno le figure mitologiche” caproniane. Basterà citare i versi “come un’allegoria, / una fanciulla appare / sulla porta dell’osteria” (Borgoratti): come dirà  testualmente  Caproni, “già a quei tempi […] davo un valore quasi un’allegoria, un significato sempre volto ad esprimere un qualcosa d’altro (una mia o altrui inquietudine) al di là del puro significato letterale o figurativo della parola” (p. 16). Si inizia così col “mistero della creazione” nel quale Rina (pseudonimo della moglie con cui il poeta si sposa nel 1938) è insieme Flora e Venere, ma si conclude con quella Olga Franzoni  (giovane amore del poeta, deceduta nel ’36) che viene cantata morta. Così commenta Ghirlanda: “morendo prematuramente alle soglie della guerra” la giovane “non si macchia della corruzione storica e la sua scomparsa assume il valore simbolico di un tempo irrimediabilmente tradito” (p. 27).

Indubbiamente, la “fucina poetica del mito” si trova tuttavia nella raccolta Il passaggio di Enea (1943-1955), che comprende i poemetti Le biciclette, Le stanze della funicolare, All alone e Il passaggio di Enea. Dovendo purtroppo sintetizzare, ci limitiamo ad accennare che, ne Le biciclette, appare la maga ariostesca Alcina. Diceva De Sanctis che Angelica, Alcina e Armida sono le  Circi italiane. Qui Alcina è “l’imbestiamento dell’uomo per opera dell’amore e la sua liberazione per opera della ragione”. Tutto avviene attraverso il locus amoenus in cui si svolge la vicenda. “Nel ’giardino’ infatti la donna attirava gli uomini per compiere il sortilegio d’amore; e – risvolto più inquietante – lo stesso giardino era costituito da amanti trasformati in piante, una volta soddisfatto il capriccio di Alcina” (p. 57).

     Ma è ne Le stanze della funicolare che c’è la narrazione d quella che De Robertis definì una “epopea casalinga”. Dirà lo stesso Caproni: “Le stanze sono un poco il simbolo, o l’allegoria della vita umana come inarrestabile viaggio verso la morte. La funicolare del Righi, a Genova, esiste davvero [anche se Caproni ne estende il percorso]. Il suo percorso avviene al buio, in galleria:  un   buio e una galleria che potrebbero essere interpretati come il ventre materno. Poi la funicolare sbocca all’aperto (è la nascita), prosegue fino alla meta, tirata dal suo ‘cavo  inflessibile’ (il tempo, il destino), senza potersi fermare. Ogni ‘stanza’ è una stagione differente della nostra esistenza.  […] Fino all’ultima stazione, che nel poemetto è avvolta nella nebbia (mistero e lenzuolo funebre insieme!)” ( Epistola a Carlo Betocchi del 20 agosto 1979).  

 Il titolo del poemetto All alone è ripreso da un verso di E.A.Poe. “I poemetti – afferma Ghirlanda – creano una climax ascendente per arrivare, con All alone, e ancor più col Passaggio di Enea, alla teorizzazione di una sorta di vero e proprio manifesto filosofico sull’uomo contemporaneo. […] L’ulissismo iniziale si modifica nel passo d’Enea, dell’eroe senza una terra in cui far ritorno” (p. 106-107) e perciò “separato dal passato e dalla possibilità di un futuro” (p. 130). Ghirlanda può così concludere: “Iscritti entro i confini di una dimensione autobiografica intrecciata con la riflessione metaletteraria e metastorica questi quattro componimenti rappresentano il tentativo –  riuscito – di saldare la poesia classica e delle origini con quella moderna, come dimostrano le fonti e le reminiscenze letterarie” (da Claudiano e Omero, all’Ariosto, a Poe, Eliot e Baudelaire)  (p. 153). E termina la sua disamina affermando che “Caproni giungerà, al termine della sua produzione poetica, all’irridente denuncia della scomparsa di un ordine cosmico: miti classici e richiami biblici vengono utilizzati per sottolineare il distacco dal periodo della certezza del logos e del verbum, quasi fossero elementi di un’apologetica ribaltata”.

    Ma la produzione poetica di Caproni prosegue con opere fondamentali ed “estreme”. Si indica: “Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1960-1964)”, “Il muro della terra (1964-1975)”, “Il franco cacciatore (1973-1982)”, “Il conte di Kevenh?ller (1984)”, “Res amissa (1991)”, dalla quale ultima raccolta si riporta l’aforisma: “Se Dio c’è o non c’è è questione secondaria. Il difficile è stabilire, ammessane l’esistenza, il suo rapporto con l’uomo”.

    Non si può pertanto non riportare, brevemente, alcuni giudizi critici che sulla sua poesia sono stati dati. Mons. Gianfranco Ravasi si sofferma sulla sua ansia religiosa, “sulla sua patoteologia, come egli la definiva. […] Sì. Perché egli si domandava: ‘Dio è una malattia?’, una malattia a cui  non ci si può sottrarre, una malattia mortale? [Per incidens, si ricorda che un’opera di S. Kierke- gaard s’intitola proprio La malattia mortale] E qui entrava subito in scena una sorta di teologia radicale” (Già il nulla sarebbe qualcosa, “Il Sole/24 Ore” del 15.1.2012).

  Giovanni Raboni distingue tre grandi temi nella sua poesia: il tema della città, il tema della ma-dre, il tema del viaggio. […] I tre temi […] appaiono così intrecciati, così ribaditi l’uno all’altro e l’uno nell’altro da formare, più che una successione, un anello di temi. […] Essi hanno un comune denominatore, che è quello dell’esilio. […] Discorso tematico che, nella parte più recente dell’ope-ra di Caproni, si radicalizza, si estremizza: […] è, nientemeno, il tema della ‘terra bruciata’, della  morte di Dio, dell’inesistenza e necessità di Dio, dell’impossibilità di scovare il deus absconditus, ma anche di cancellarne il buco, il vuoto, il nome.[…] Esilio di Dio, esilio dell’uomo da Dio, cioè da   ogni cosa e da ogni luogo” (“Paragone” n° 334 del dic. 1977, poi rielaborato a introduzione della antologia L’ultimo borgo, MI, Rizzoli, BUR, 1980).

   Italo Calvino, a sua volta, affermava:”Molte latterie e molte osterie compaiono nei suoi versi, molti bicchieri di latte o di vino si posano sull’incerato, ma non fidatevi; ciò che si presenta come  emblema d’un elementare attaccamento alla vita vuol solo significare questo: ciò che è, è poca cosa, mentre il resto (il tutto, o quasi) è ciò che non è, che non è stato, che non sarà mai. […] Questo senso della limitatezza e precarietà di ciò che è, alla frontiera incombente del non essere, è il nucleo di quella che potremmo chiamare l’ontologia negativa di Caproni” (“La Repubblica” del 19.12. 1980).

   Gian Luigi Beccaria sottolineava che “nelle due ultime raccolte, il grande tema della poesia e della filosofia contemporanea, il nulla, è esposto senza enfasi, magniloquenze. Nichilismo calmo, senza retorica, riservatissimo. […] Dio è raggiunto attraverso la sua negazione, in questa procla-mazione poetica del nulla. Una teologia negativa. […] La sua è la religione del vuoto, descritta, commentata con dizione mirabile in luoghi di frontiera, in terre di nessuno dove s’incontrano soltanto guardiacaccia, osterie solitarie, cacciatori sconosciuti, e tutto è solitudine, dolore, addio di un uomo ancora in viaggio o in fuga”(“L’indice”, anno I, n° 1, TO, ottobre 1984).  

   E concludiamo con la grande diagnosi che ne ha fatto Giorgio Agamben:” In Caproni giunge al suo esito estremo – al suo collasso – la tradizione dell’ateologia poetica […] della modernità. […] Per questo Caproni è riuscito, forse più di ogni altro poeta contemporaneo, a esprimere senza ombra di nostalgia o di nichilismo l’ethos e, quasi, la Stimmung della ‘solitudine senza Dio’”  (Disappropriata maniera, prefazione a Res amissa, Garzanti, MI, 1991).

                                                                                           

ELVIRA M. GHIRLANDA, Giorgio Caproni, poeta del mito, Pungitopo Ed., Gioiosa Marea [ME], 2017, € 15,00.