di Francesco Mazzarella
In un’epoca dominata da like, condivisioni e commenti, ci siamo abituati a usare le parole come se fossero aria. Leggere, veloci, spesso impulsive. Eppure, ogni parola che scriviamo sui social è un atto. Può essere un ponte o una lama. Può costruire un legame o distruggerlo. Può accendere una speranza o alimentare un conflitto. La comunicazione empatica sui social media non è solo una buona abitudine: è una scelta culturale, una forma di responsabilità. Ed è anche – sempre di più – una necessità sociale per costruire una cultura del rispetto e della pace.
In molti credono che la comunicazione sia un mezzo neutro, un semplice veicolo di informazioni. Ma ogni messaggio trasporta, insieme al contenuto, una relazione. Quando scriviamo, parliamo, pubblichiamo, ci stiamo posizionando. Ecco perché è fondamentale che le nostre parole siano non solo corrette, ma anche rispettose, aperte, generative. Pensiamo ai commenti sotto un post virale su un fatto di cronaca: basta scorrere per qualche secondo per trovare insulti, battute violente, sarcasmo velenoso. Frasi come “Se l’è cercata”, “Ma che stava vestita così a fare?”, “Io al suo posto…” sono esempi quotidiani di quanto le parole possano diventare strumenti di giudizio, condanna, esclusione.
Eppure, basterebbe poco per cambiare il tono. Invece di scrivere: “Che schifo, siete tutti uguali”, si può scegliere: “Non condivido questa visione, ma vorrei capire meglio il tuo punto di vista”. Invece di liquidare una notizia con un “tanto non cambia mai niente”, si può dire: “Questo mi ferisce, ma credo che parlarne sia importante”. Piccole variazioni linguistiche che fanno una differenza enorme.
La comunicazione empatica parte da una semplice domanda: “Come si sentirà l’altro leggendo ciò che scrivo?”. Non significa rinunciare a dire la propria, né cedere al buonismo. Significa esercitare un potere spesso dimenticato: la gentilezza. Non quella superficiale, ma quella che nasce dal rispetto per la vulnerabilità dell’altro.
Nei social, il contesto è tutto. Quando scriviamo, non abbiamo il volto, il tono, gli occhi di chi ci legge. Non possiamo correggere in tempo reale un fraintendimento. Per questo, ogni parola va calibrata con più attenzione. La frase detta in un bar tra amici ha un impatto molto diverso da un commento pubblico visibile a migliaia di persone. Un esempio pratico? Un tweet come “Sei un ignorante, studia la storia!” può facilmente generare una valanga di risposte rabbiose. Ma se scrivessimo “Hai mai letto questa analisi? Potrebbe offrirti un altro punto di vista”, l’impatto sarebbe diverso.
Le piattaforme digitali, purtroppo, tendono a premiare l’engagement più che la qualità del dialogo. Gli algoritmi di Facebook, Instagram, X (ex Twitter) e TikTok spesso favoriscono contenuti divisivi, emozionalmente forti, polarizzanti. Il meccanismo è semplice: più una cosa fa discutere, più viene mostrata. E più viene mostrata, più diventa normale. Questo ci chiama in causa.
Se ogni nostra parola contribuisce a nutrire l’algoritmo, allora possiamo scegliere di alimentarlo con rispetto, empatia, visione. Condividere un contenuto che promuove la pace ha lo stesso potere virale di un contenuto polemico, se sostenuto da una rete che crede nella forza delle parole.
Pensiamo a un caso concreto. Un post su una donna vittima di violenza può attirare sia commenti pieni di odio (“doveva pensarci prima”) sia parole di solidarietà. Ogni volta che scegliamo la seconda strada, stiamo educando gli altri, e soprattutto i più giovani, a un nuovo modo di stare nella rete.
Questo tipo di comunicazione ha effetti anche nel lungo periodo. Gli studi sul linguaggio inclusivo dimostrano che le parole cambiano la percezione. Se parliamo di “persone migranti” invece che di “clandestini”, se diciamo “persona con disabilità” invece di “handicappato”, stiamo facendo spazio. Stiamo includendo. Stiamo creando una narrazione che non esclude nessuno.
La pace non è un’utopia. È una costruzione quotidiana, fatta anche di scelte linguistiche. Una parola sbagliata può scatenare una guerra di commenti. Una parola giusta può aprire un confronto. La rete è piena di esempi di odio, ma anche di straordinari atti di riconciliazione: influencer che si scusano pubblicamente, persone che cambiano idea leggendo il commento di uno sconosciuto, campagne virali che nascono da una frase gentile.
Un caso emblematico è quello del movimento “#ChooseKindness”, nato da alcune scuole americane che hanno portato sui social l’invito a scegliere parole gentili. Migliaia di ragazzi e ragazze hanno iniziato a pubblicare frasi incoraggianti, trasformando la loro bacheca in uno spazio positivo. L’effetto domino è stato potente: quando la gentilezza diventa visibile, diventa imitabile.
Anche in Italia, campagne come “Parole Ostili” hanno fatto emergere il potenziale trasformativo del linguaggio. Il loro manifesto della comunicazione non ostile è stato adottato da centinaia di scuole, comuni, enti pubblici. È la prova che un nuovo vocabolario è possibile.
Non servono supereroi per farlo. Basta ogni giorno scegliere parole che accolgono, che rispettano, che aprono. Quando un ragazzo vede che sotto una notizia difficile ci sono più commenti empatici che violenti, si sentirà meno solo. Quando una donna legge che le sue ferite non vengono messe in discussione, ma accolte, potrà credere che la rete è anche uno spazio di cura.
Tutto questo non è buonismo. È realismo. È consapevolezza che viviamo in un ecosistema linguistico. Le parole che usiamo plasmano il mondo che viviamo. La comunicazione empatica sui social è il primo passo per una cultura della pace. È un investimento collettivo. Un seme che ciascuno può piantare.
Anche chi legge questo articolo, da oggi, può scegliere: usare le parole come muri o come ponti. E se i social sono lo specchio di ciò che siamo, allora è tempo di guardarci negli occhi. E metterci il cuore.


