Mafia: Nel ricordo di Padre Pino Puglisi

Uomo disarmato, ma non certo parroco distratto o sprovveduto

Puglisi: un parroco, un cristiano, un uomo. La sua gente, la comunità di San Gaetano, Brancaccio, Palermo. Puglisi parroco a Brancaccio dove in quegli anni era sorta una “zona industriale” tremila operai, un vero paradiso per il racket del pizzo.

Brancaccio, un pezzo di città di Palermo e che racchiude tutta la vita ed anche la morte di Puglisi, ma racchiude anche – altro segno dei tempi – la intensa attività pastorale di don Pino e le spietate guerre di mafia che hanno visto affrontarsi i Bandate, gli Inzerillo, i Contorno, ai clan “vincenti” dei Greco e dei loro alleati, i “corleonesi” di Totò Riina Bernardo Provenzano.

È il quartiere dove Puglisi molto anni prima insieme ad un altro sacerdote, quando con questi dirigevano il centro diocesano vocazioni, portava gli studenti di un liceo cittadino, Vittorio Emanuele II, a giocare con i bambini che marinavano la scuola. Lo stesso posto dove il cardinale Pappalardo, poco dopo essere stato nominato celebrò una messa tra le strade fangose. A poche centinaia di metri, si trova la “camera della morte”, dove i killer della mafia strangolavano i loro nemici e scioglievano nell’acido i loro corpi. Poco più in là c’è piazza Scaffa dove, nella notte tra il 17 ed il 18 ottobre del 1984, furono massacrate otto persone dentro una stalla. Ma c’è anche l’abitazione di Pietro Venergo, il boss che evase a piedi, indisturbato ad in pigiama dall’Ospedale Civico dove era ricoverato “sotto stretto controllo” dalla polizia.

È un quartiere dove ogni strada, ogni angolo, ogni vicolo, ha conosciuto un omicidio, un agguato. Come il ponte di via Giafar dove, il 25 giugno del 1981, si affrontano a colpi di “P38” e Kalashnikov, Totuccio Contorno e Pino Greco, detto “scarpuzzedda”, vicoli, piazze e strade conosciute palmo a palmo dai boss e dai sicari, ma anche da Puglisi che non aveva mai smesso di seguire ed amari il suo quartiere. Neanche quando fu parroco a Godrano, pochi chilometri da Palermo, e neanche quando di occupò del centro vocazione della diocesi.

Puglisi, uomo disarmato, ma non certo parroco distratto o sprovveduto e che invece conosceva bene la drammatica situazione del so quartiere che impegnava sempre di più la parrocchia in una azione di supplenza, ma senza averne le forse. Sapeva bene Puglisi che la “pax mafiosa” che regnava da anni a Brancaccio, era nata da spietati anni di piombo vissuti prima, e dal fatto che ormai non c’era più nessuno da uccidere: i corleonesi avevano fatto fuori tutti i loro avversari e, se qualcuno era ancora vivo, chissà dove si era rifugiato”

Tutto questo Puglisi lo sapeva, come sapeva che la parrocchia, la sua parrocchia, in quel contesto doveva aiutare il seme a germogliare, a crescere, a dare frutti e soprattutto a togliere ostacoli. In buona sostanza, aiutare ogni uomo a crescere in umanità a non prendere in considerazione solo gli elementi “nobili”, elevati e razionali, ma calarsi preso gli aspetti tragici, irrazionali e dolorosi della vita. È questo miracolo che si compiva nella parrocchia di San Gaetano dove il primo linguaggio dell’uomo è la sua stessa vita e dove, appunto perché vi è una comunità di uomini, si libera un cristianesimo sincero e non un surrogato socio-ideologico.

Una parrocchia siffatta è anche un servizio alla società, perché provoca intelligenze, coscienze in libertà, penetra nel tessuto più intimo di un territorio, anzi ne diventa l’anima. Quando la fede si vuole “inculturare”, ogni angolo della terra, ogni angolo di Palermo diventa “parrocchia”, non per propagandare una ideologia, o per annunziare un messianismo politico o spettacolare, ma perché una porzione di umanità è davvero tale se sono mutate in essa intelligenze e volontà, sensibilità, responsabilità e spiritualità. Una comunità che conosce ed ama il proprio territorio.

“ottomila abitanti – scriveva Puglisi – ma solo tremila sono i superstiti dell’antica borgata rurale. L’ambiente è disomogeneo e la presenza della mafia è soltanto uno dei problemi. Certo, non il minore, ma per molti la vera preoccupazione è riuscire a mangiare ogni giorno. Circe centocinquanta famiglie, giunge dal centro storico, si trovano concentrate in due enormi palazzi abitavano in case ormai inagibili, che crollavano a pezzi. Il comune le ha fatte sgombrare ed ha requisito questi due nuovi edifici. Le famiglie ora vi abitano, ma si sono portate dietro la propria povertà. È una terra di nessuno. I bambini vivono in strada. E della strada imparano solo le lezioni della delinquenza: scippi, furti, ma anche la microcriminalità a Brancaccio deve rispettare certe regole. Ad esempio, subito dopo l’arrivo di questi sfrattati, vi fu un’ondata di furti d’auto. E alcuni di questi ladruncoli, per presunzione, sono improvvisamente scomparsi. Agitavano senza seguire le regole imposte dai mafiosi del luogo: chissà, forse li ritroveranno dentro qualche pilastro di cemento. Poi evidentemente c’è stata la sottomissione e da allora non è scomparso più nessuno. I furti continuano, ma colpiscono solo chi non è “protetto”, i ladri di questo genere, non sono “uomini d’onore”, ma formano la rete di connivenze della mafia. Sulla via rancacci, tra due passaggi a livello, vi è una zona chiamata “Stati Uniti”, qui i più poveri della città trovano rifugio in “catoi” che possono chiamarsi case, ma costano pochissimo di affitto. Qui la povertà è anche culturale, molti non hanno conseguito neanche la licenza elementare. Come parrocchia abbiamo cercato di fare dei corsi per gli analfabeti, ma certo il nostro sforzo non è sufficiente…. C’è povertà anche dal punto di vista morale, in molte famiglie non ci sono principe etici stabili, ma tutto viene valutato sul momento, in base alla necessità. Non c’è rispetto per la propria dignità, né per quella altrui. Non c’è rispetto per la proprietà, da ciò nasce quell’insieme di “trasgressioni legali” – nel senso che le loro illegalità non è neanche avvertita – come il lavoro nero, il contrabbando, lo spaccio di droga, i furti… ci sono diversi ragazzi che sono stati o sono tuttora ospiti del carcere minorile, alcuni adulti agli arresti domiciliari, altri all’Ucciardone. il degrado morale si propaga a tutta la famiglia… moltissime coppie sono irregolari: a 14 anni si fa la “fuitina” alla quale segue dopo tempo il matrimonio riparatore.”

Puglisi,da Godrano, giunge alla parrocchia di san Gaetano a Brancaccio, per una scelta di obbedienza. Il cardinale Pappalardo aveva urgenza di nominare un nuovo parroco, ma nessuno voleva accettare l’incarico e così don Puglisi, dopo aver diretto un ufficio diocesano di prestigio come il centro vocazioni, viene individuato come possibile parroco di Brancaccio. Qualche giorno dopo la nomina, Puglisi dichiarò “la Chiesa non è la sede di un partito o un circolo ideologico. Al primo posto bisogna sempre mettere la crescita religiosa.

Forme di collaborazione sono possibili, ma solo se si tiene a mente questo principio…” Parole che pagò care: parecchi si allontanarono dalla parrocchia e qualcuno anzi lo bollò come “normalizzatore”, secondo parametri superficiali e giudizi sommari che prefiguravano l’impegno di parroco solo come antimafia, un impegno emotivo e che spesso genera solo visibilità.

La pallottola che ha ucciso Puglisi la sera del 15 settembre 1993, ha sconfessato e rimesso in discussione anche questo stereotipo, la sua morte ha scompaginato il torpore di chi, in buona fede o in mala fede, pretende sempre di mettere il “cappello” su ogni iniziativa, su ogni persona, classificandola, collocandola, a proprio piacimento, a destra o a sinistra.

Puglisi era stato addirittura accusato di essere un “normalizzatore”, ed è stato ucciso per il suo forte impegno di evangelizzazione e per tale motivo santificato. Puglisi non era di nessuno, perché era della Chiesa e della sua comunità di Brancaccio, ed il suo amore ed il suo impegno per Brancaccio non aveva origini da teorie sociologiche o da scelte politiche, bensì da una scelta profonda di Dio che lo portava ad incarnare il Vangelo, diventando egli stesso un “mistico” dell’impegno sociale, organizzando “normalmente” una resistenza non violenta al potere dei capi della mafia, perché il Vangelo coerentemente vissuto porta la spada e la rivoluzione fin dentro le famiglie: mette figlio contro il padre. C’è dubbio che l’azione moralizzatrice di Puglisi facesse crescere il divario tra il giovane figlio che scopre la legalità, torna a casa e non si riconosce più nei valori della violenza del padre mafioso? Non significa portare la guerra dentro una famiglia?Quello che altri, frettolosamente, avevano bollato come “normalizzatore”, aveva semplicemente vissuto e testimoniato un Vangelo che, quando si incarna, diventa dirompente. Che non lascia niente e nessuno al loro posto, che cambia radicalmente un territorio, ben si comprende come un’azione del genere, deve aver fatto preoccupare più di una persona e più di un ambiente.

Catoio: magazino

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