Ci sono leggi che salvano lo Stato.E ci sono silenzi che non salvano nessuno.

La legge sui collaboratori di giustizia – i cosiddetti pentiti – è una di quelle norme nate in tempi drammatici, pensata per far crollare i muri di omertà, per colpire i clan nel loro cuore: la struttura interna, i segreti, i legami

di Francesco Mazzarella

C’è una zona d’ombra nella giustizia italiana, uno spazio sospeso tra legalità e coscienza, tra necessità investigativa e dignità umana. È il territorio dei pentiti di mafia, dei collaboratori di giustizia, di quella legge speciale che da oltre trent’anni rappresenta uno degli strumenti più efficaci nella lotta alle organizzazioni criminali. Eppure, oggi, quella legge – la legge sui pentiti – fa rumore più per le sue contraddizioni che per i risultati. La sua applicazione non smette di interrogare coscienze, scuotere famiglie, alimentare dibattiti. Ha ancora senso? O si è trasformata in una nuova forma di trattativa tra Stato e criminalità?

Era il 1991 quando, con urgenza e paura, il Parlamento italiano approvava il decreto legge 152, convertito poi nella legge 203, per disciplinare l’utilizzo delle dichiarazioni dei collaboratori. Era l’epoca delle stragi, del sangue nelle strade, dei morti che si contavano a decine. Giovanni Falcone aveva intuito, prima di tutti, che per scardinare Cosa Nostra bisognava aprire crepe dall’interno. Bisognava convincere i mafiosi a parlare. Offrire loro qualcosa in cambio: una possibilità di rinascita, una riduzione di pena, la protezione per sé e per la propria famiglia. Una scelta che sembrava moralmente discutibile ma strategicamente necessaria.

E così è stato. Da Tommaso Buscetta a Totuccio Contorno, da Gaspare Mutolo a Giovanni Brusca, interi sistemi criminali sono crollati grazie alla voce di chi, fino a poco prima, era complice. Le aule di tribunale si sono riempite di testimonianze dirette, i giudici hanno potuto ricostruire dinamiche, organigrammi, mandanti. Lo Stato sembrava avere trovato un’arma segreta, potentissima, per riprendersi il potere, per mostrare ai cittadini che si poteva vincere contro la mafia.

Ma con il tempo, quella che era nata come strategia eccezionale si è trasformata in una prassi. Una prassi che ha prodotto risultati, sì, ma anche ambiguità. I collaboratori di giustizia sono aumentati, ma con loro sono cresciuti i dubbi: sulla qualità delle informazioni, sull’effettiva sincerità del pentimento, sull’utilizzo politico delle confessioni. La giustizia ha cominciato a camminare su un crinale scivoloso: da una parte la sete di verità, dall’altra il rischio di fare patti con chi ha distrutto vite, famiglie, comunità intere.

L’esempio più noto e più disturbante è quello di Giovanni Brusca. L’uomo che ha premuto il pulsante che fece saltare in aria l’autostrada di Capaci. L’uomo che ha sciolto nell’acido un bambino di dodici anni, Giuseppe Di Matteo, per punire il padre che aveva parlato con i magistrati. Un killer spietato, responsabile di oltre cento omicidi, libero oggi dopo 25 anni di carcere grazie alla sua collaborazione. Ha detto tutto, ha raccontato tutto, ha fatto arrestare decine di mafiosi. E per questo ha ottenuto ciò che la legge prevede: la libertà.

Ma può esistere una legge che consenta a un carnefice di uscire prima, mentre le sue vittime sono ancora chiuse nel loro dolore? È davvero giustizia questa? O è una forma raffinata di baratto, dove lo Stato si siede al tavolo con il male e ne accetta le condizioni?

La legge sui pentiti, nel tempo, ha cambiato il modo di fare investigazione. Ha prodotto una rivoluzione culturale nel rapporto tra crimine e giustizia. Ma ha anche creato una frattura con la percezione di giustizia che vive nei cuori delle persone. Perché se è vero che conoscere la verità serve a tutti, è anche vero che la verità non basta a colmare il vuoto della perdita, l’ingiustizia della sopravvivenza del colpevole. E così, accade che lo Stato celebri la collaborazione come vittoria, mentre le famiglie delle vittime la vivano come una seconda condanna.

Ci si interroga allora: qual è il limite oltre il quale la legge smette di essere equa per diventare conveniente? Dove si trova il confine tra un patto utile e una trattativa inaccettabile? E soprattutto: chi decide se un pentito è davvero tale, se il suo pentimento è autentico, se il suo contributo alla giustizia è proporzionato al dolore che ha generato?

In un Paese in cui le stragi di mafia sono ancora una ferita aperta, in cui la memoria di Falcone e Borsellino è ogni anno invocata e celebrata, la legge sui pentiti sembra vivere un paradosso. Da un lato è uno dei pochi strumenti realmente efficaci contro il crimine organizzato; dall’altro rischia di legittimare, nei fatti, una forma di impunità. Non totale, ma sostanziale. Perché 25 anni, anche se passati in carcere, non sono lo stesso peso di una madre che non rivedrà mai più suo figlio.

C’è poi un aspetto ancora più inquietante: la possibile manipolazione. Il rischio che alcuni collaboratori “aggiustino” le proprie verità per ottenere vantaggi. Che vengano protetti anche quando le loro dichiarazioni si rivelano contraddittorie o strumentali. Che diventino, in fondo, più utili da vivi e liberi che non da colpevoli e condannati. È il lato oscuro della collaborazione, quello che trasforma il pentito in un nuovo potere, in una pedina che lo Stato usa, ma che a volte sfugge di mano.

Dovremmo allora chiederci se non sia il momento di ripensare questa legge. Non per abolirla, ma per renderla più giusta, più umana, più rispettosa della memoria e del dolore. Forse sarebbe necessario introdurre un vincolo di proporzionalità tra il crimine commesso e il beneficio ottenuto. Forse andrebbero previste forme pubbliche e obbligatorie di riconciliazione tra pentito e familiari delle vittime. O, almeno, un obbligo di testimonianza in cui il collaboratore non possa più nascondersi, ma debba metterci la faccia, anche davanti a chi ha distrutto.

Non si tratta di chiedere vendetta, ma di costruire una giustizia che non si limiti alla verità processuale. Una giustizia che non sia solo efficienza dello Stato, ma anche riparazione del tessuto umano lacerato. Una giustizia che non separi il bene della collettività dalla dignità della persona.

Oggi più che mai, in un tempo in cui le mafie non sparano ma investono, non minacciano ma corrompono, non uccidono ma si infiltrano, la lotta alla criminalità organizzata ha bisogno di nuovi strumenti. E se la legge sui pentiti continua ad essere utile – e lo è – allora deve essere accompagnata da una riflessione più alta, più etica, più spirituale. Non possiamo più accettare che la verità sia pagata con l’oblio della giustizia. Non possiamo più barattare il dolore con una strategia. Non possiamo più celebrare la collaborazione come se fosse redenzione.

Perché il perdono, se deve esserci, non può essere una clausola del codice penale. Deve nascere altrove. Dal cuore delle vittime. E soprattutto da un Paese che abbia il coraggio di farsi domande scomode. Anche a costo di scoprire che certe verità hanno un prezzo troppo alto.

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