Giustizia all’italiana: quando la legge smette di rassicurare

Pene non certe, tempi infiniti, impunità percepita: il senso di ingiustizia cresce insieme al silenzio delle istituzioni. Ma senza la fiducia dei cittadini, lo Stato perde il suo volto umano.
immagine realizzata da FM comunicazione

di Francesco Mazzarella

In Italia la parola giustizia non rassicura più. Al contrario, divide, esaspera, confonde. Cresce il senso di ingiustizia percepita, alimentato da processi eterni, pene ineffettive e una macchina giudiziaria spesso lontana dai bisogni concreti delle persone.

Ma com’è possibile che un sistema pensato per tutelare la collettività produca così tanta sfiducia?

La certezza della pena è il fondamento di ogni Stato di diritto. Tuttavia, nel contesto italiano, è una promessa disattesa. La prescrizione taglia innumerevoli processi, le pene sospese riducono l’effetto deterrente e la recidiva si aggira tra il 60% e il 70%.

Nel frattempo, le vittime attendono, e i cittadini osservano, rassegnati.

Nel civile come nel penale, l’eccessiva durata dei processi è cronica. Una causa può durare fino a 10 anni. Le riforme promesse si arenano nei meandri delle commissioni parlamentari, mentre la fiducia nello Stato si sgretola.

A ogni rinvio, si allontana il senso di equità.

La politica italiana ha spesso usato la giustizia come strumento di propaganda, senza mai affrontarne davvero le radici strutturali.Grandi annunci, leggi simboliche, scontri tra giustizialisti e garantisti: il risultato è l’immobilismo.Manca un progetto condiviso e lungimirante. Manca la volontà di una giustizia accessibile, equa, comprensibile.

L’art. 27 della Costituzione parla chiaro: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma le carceri italiane raccontano un’altra storia: sovraffollamento, violenza, assenza di percorsi riabilitativi.

Ogni suicidio in carcere è la sconfitta di uno Stato che non sa farsi carico delle sue contraddizioni.

L’opinione pubblica è sempre più delusa, spesso arrabbiata, ma raramente coinvolta attivamente. Il dibattito si polarizza: da un lato chi invoca il pugno duro, dall’altro chi difende i diritti anche dei colpevoli. In mezzo, il vuoto.

Servono spazi di confronto, educazione alla legalità, partecipazione alle riforme.

Ogni fatto di cronaca grave diventa un’“emergenza”: baby gang, violenza domestica, femminicidi. Ma le soluzioni restano spesso estemporanee: un decreto, una legge spot, un pacchetto sicurezza.

Senza una visione sistemica, ogni “tampone” alimenta solo la frustrazione e il disincanto.

Chi ha governato negli ultimi 30 anni ha spesso usato la giustizia come campo di battaglia elettorale. La riforma Cartabia ha aperto spiragli, ma non ha toccato i nodi profondi: l’accesso alla giustizia, la tutela delle vittime, la prevenzione della recidiva.

Serve coraggio. E serve coerenza.

La giustizia non si fa solo nei tribunali. Si costruisce nelle scuole, nei quartieri, nelle relazioni.

La giustizia riparativa, ad esempio, è una frontiera culturale ancora poco conosciuta in Italia, ma capace di riattivare responsabilità e guarigione.

Le comunità devono diventare luoghi di prevenzione e di ricostruzione del legame sociale.

La giustizia non è vendetta. E non può essere solo una macchina burocratica.

È cura del legame sociale, riconoscimento del dolore, tutela della dignità di tutti.

Se non ridiamo senso alla giustizia, perdiamo la possibilità di riconoscerci come collettività.

Call to action: e tu, che giustizia vuoi?

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Partecipa a un incontro nel tuo quartiere, promuovi un progetto educativo nella tua scuola, chiedi alla tua amministrazione cosa fa per rendere la giustizia un bene comune.

Perché la giustizia comincia anche da te.

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