LA “SUMMA” DI MATTEO COLLURA SULLA SICILIA

L'arte, la letteratura, il paesaggio, la storia e le storie, i personaggi minori, e minimi, i protagonisti famosi e segreti. È lo straordinario racconto di un'isola-mondo, un atto d'amore per la propria terra quello di Matteo Collura che nel suo “Baci a occhi aperti” racchiude quanto ha scritto finora sulla Sicilia.

Il titolo degli scritti che Matteo Collura ha dedicato alla Sicilia, Baci a occhi aperti (TEA, MI, 2020), è una metafora indicante che egli, nel baciare l’isola, si è sempre sforzato di tenere gli occhi aperti pur continuando a notarne guasti e difetti, come afferma in nota. Molti dei testi raccolti in questo libro, che è da considerare una vera e propria antologia, sono già apparsi in varie pubblicazioni del passato. E’ per questo che, chi scrive queste note, si esime dal recensire la sezione intitolata In Sicilia, una delle nove in cui il libro è organizzato, perché già analizzata quando apparve in volume autonomo, per Longanesi nel 2004 (cfr. il nostro Piccolo cabotaggio, Ismeca Ed., BO, 2010, p. 363).

   Nell’introduzione, l’autore cita Denis Mack Smith, “non si sfugge in Sicilia alla storia”, e porta alcuni esempi in cui l’isola dalla “micro” è passata direttamente alla ”macro” (preparazione dell’impresa di Lepanto nel 1571, sbarco di Garibaldi a Marsala nel 1860, armistizio di Cassibile nel settembre 1943). A ogni male della storia, peraltro, la Sicilia ha generato un proprio anticorpo: ecco il succedersi, in tempi a noi vicini, dei vari Salvatore Carnevale e Peppino Impastato, Rocco Chinnici e Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Pino Puglisi e Pippo Fava. Così come, per reazione o per necessità, in questa frontiera della storia che la Sicilia è sempre stata si è sviluppata una letteratura che si fa notare per diffusione e tenuta (p. 14). Una letteratura che è stata costretta all’autoanalisi. Diceva al riguardo Gesualdo Bufalino: “La Sicilia […] non fa che investigarsi e discorrere permalosamente di sé”. E aggiungeva Vitaliano Brancati: “Noi siciliani siamo soggetti ad ammalarci di noi stessi, un male che consiste nell’essere contemporaneamente il febbricitante e la febbre, la cosa che soffre e quella che fa soffrire”. Quanto all’insularità, sempre Bufalino affermava: “Gli isolani sono spinti a farsi isole dentro l’isola e a chiudere dall’interno la porta della loro solitudine, che vorrei con vocabolo inesistente definire ‘isolitudine’, con ciò intendendo il trasporto di complice sudditanza che avvince al suo scoglio ogni naufrago”. In definitiva – conclude l’autore – i siciliani possono essere definiti ‘inquilini della storia’ (ma non protagonisti della propria vicenda): “Perché terra di eccessi, di paradossi e, alla fine, di esibito cupio dissolvi, la Sicilia? […] Perché la Sicilia è così condizionante per coloro che vi nascono e vi abitano? Perché, come dice il principe Fabrizio Salina nel Gattopardo, i siciliani sono convinti di essere creature perfette? Perché sono portati a credere a una simile invenzione? Una condanna, questa illusione, una patologica condizione mentale” (p. 31).

   La sezione che segue tratta della sensualità dei siciliani e del mito che della donna hanno creato. D’altra parte la figura del rapimento di Persefone da parte di Ade (la c.d. “fuitina”) era già mitologicamente ambientata in Sicilia fin dall’antichità. Nel secolo testé trascorso si pensi che, nel 1927, alla “fuga” amorosa erano ricorsi la sorella di Quasimodo, Rosa, ed Elio Vittorini. E che bisogna arrivare al 1965 quando, attraverso il rifiuto del c.d. “matrimonio riparatore” (poi abolito nei codici), l’esempio di Franca Viola fu determinante per l’evolvere del costume collettivo. E se persino le statue antiche fanno risaltare l’attrazione sessuale, come accadde al viaggiatore Maupassant di fronte alla statua della siracusana Venere Landolina (“E’ una Venere carnale”, disse la scrittore) , fu poi Vitaliano Brancati ad assumere questa tematica nella sua opera: “Questo scrittore che, assieme a pagine di indimenticabile comicità (Don Giovanni in Sicilia, Il bell’Antonio), ne ha lasciate altre di squisito ancorché tetro umorismo, di cui Paolo il caldo è, nei fatti, l’esito finale.[…] Il ‘gallismo’ [col suo sottinteso paragone col fascismo] nelle pagine di questo inquietante romanzo sfocia nella lussuria, l’anticamera della pornografia, vale a dire la rappresentazione mortifera, oltre che mortificante, della sensualità” (p. 250/251). E il rapporto con la donna può a volte portare alla vera follia, come accadde per Luigi Pirandello che fu costretto a far rinchiudere la moglie Antonietta Portolano in casa di cura, a causa della sua patologica gelosia: “Il segreto di Pirandello […] è la sua capacità di fare teatro delle proprie angosce” (p. 262).

Nella sezione Paesaggio e destino l’autore parla dell’influenza determinante che i luoghi di nascita hanno sulla “visione” estetica degli artisti, in “quell’eterna contrapposizione che ossessionò Pirandello, quella tra la vita e la forma” (p. 271). E cita Leonardo Sciascia che trovava un parallelo tra la Spoon River di Lee Masters e la Girgenti (così si chiamava Agrigento fino al 1927) pirandelliana: “Occorreva loro […] che il luogo della metamorfosi diventasse mezzo di espressione, luogo convenuto in cui le verità, non la verità, dei personaggi trovassero declinazione in una nuova unità drammatica… Per Pirandello, il teatro. Per Lee Masters, un cimitero. […] Luoghi […] di conflitti tra vita e forma, tra personaggi e creature. […] A farli diversi, c’è la Bibbia dietro Lee Masters e Gorgia dietro Pirandello […]” (p. 272). Lo stesso peraltro si potrebbe dire di Sciascia rispetto a Racalmuto, di cui diceva: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato” (p. 279).

 I luoghi deputati per Tomasi di Lampedusa sono Palermo (la cui casa fu distrutta dalle bombe nella primavera del 1943), S. Margherita Belice (il palazzo Filangeri di Cutò fu distrutto dal terremoto del 1968) e Palma di Montechiaro, che corrisponde alla Donnafugata del Gattopardo, col suo “selvatico castello […] e l’ombroso monastero delle Benedettine, in cui si annida la venerata cappella […] contenente l’urna con le spoglie di Suor Maria Crocifissa (Isabella Tomasi il suo nome civile), diventata nel romanzo […] la Beata Corbera” (p. 283). Il romanzo di Lampedusa è “il ritratto più emblematico della Sicilia, […] in cui i siciliani con dolore ritrovano la propria immagine sovrapposta, […] nel quale cambiava tutto per non cambiare nulla, o […] meglio tutto veniva a dimostrare che la storia, generazione dopo generazione, rivoluzione dopo rivoluzione, spesso porta al fallimento di ogni illusione” (pp. 288/289). Proprio nel discorso al funzionario piemontese Chevalley, don Fabrizio cerca di dimostrare che la colpa dell’arretratezza in cui si trascina la Sicilia non era del feudalesimo ma di “quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano […], che in realtà è cecità” (p. 291: si ricordi che in Sicilia, a differenza della Francia o dell’Inghilterra,  non ci fu mai un potere statale assolutistico e centralistico, perché i “baroni” hanno sempre contrastato il re per mantenere i loro privilegi). In tale contesto l’autore sottolinea, dopo quella del principe, l’importanza che la figura di Concetta ha nel romanzo, “di ferrea guardiana del potere in famiglia e nella società” (p. 300).

   Appare meno contraddittorio l’atteggiamento di Verga, scrittore verista “e tuttavia autore di opere permeate di fatalistica rassegnazione. La storia, in Sicilia, è destinata a finire sconfitta […]. Ecco il perché di tanta letteratura che potremmo definire ‘della delusione’, ecco il perché di quel filo di risentimento civile che lega, nel tempo, Giovanni Verga […] a Leonardo Sciascia” [ma tra gli autori citati Collura dimentica di nominare Vincenzo Consolo] (p. 309). L’autore trova poi delle affinità tra J.L. Borges e G. Bufalino, “a partire da quella, determinante, del non credere in niente (dalla politica alla religione) e di coltivare la passione per la letteratura (ma sarebbe meglio dire vizio) per rendere sopportabile l’insondabile mistero di stare al mondo” (p. 316). E nel riferire della sua diversità rispetto a Sciascia, riporta il seguente colloquio tra i due: “Io invidio la tua forza civile, il tuo impegno sociale, la tua capacità di servirti della parola scritta per persuadere o dissuadere. Io invece non so fare scrittura morale”. “L’importante è di non farne di immorale”, fu il commento di Sciascia (p. 321).  

   Nella sezione Enigmi, Collura riferisce della “scoperta” che Gianluigi Colin fece per il ritratto l’Uomo ignoto di Antonello da Messina, “che avrebbe lasciato […] un chiarissimo segno della sua virile gioia di vivere: una intrigante stilizzazione della vulva” (p. 329). Mentre svela l’ultimo “mistero” di Sciascia a proposito dell’epitaffio che lo scrittore volle sulla sua tomba (la frase di Villier de l’Isle-Adam: “ce ne ricorderemo di questo pianeta”), al cui riguardo trova fondato quanto disse proprio lo scettico Bufalino: “Questo pianeta, cioé, con le sue abiezioni e dolcezze, quanto dovrà apparirci estraneo da una remota nuvola, e tuttavia desiderabile, e tuttavia oggetto d’una insopprimibile volontà di memoria” (p. 335). La sezione si chiude con gli “enigmi” su Ippolito Nievo, Enrico Mattei ed Ettore Majiorana (al quale ultimo è equiparata la scomparsa dell’economista Federico Caffè).

   La sezione successiva riguarda le “imposture”: a cominciare da quella dei monaci di Mazzarino, che si fecero estortori a séguito delle minacce del loro ortolano. Segue il rapimento-farsa del barone Francesco Agnello (fu nascosto in una grotta da un suo giovane contadino, che alla domanda sul perché l’avesse fatto, rispose: “Solo vossia deve andare al Jolly Hotel?”). E poi il ritratto di Giuseppe Genco Russo, “boss da operetta”, che fu intervistato da Leonardo Sciascia, e si chiude infine con il mito “bugiardo” del bandito Giuliano, che nel travisamento popolare era solo un “figlio di mamma” e quasi un Robin Hood. Ci sono poi alcune figure di “geni scalognati”, vale a dire figure bizzarre in cui i tratti geniali si affiancano a quelli paradossali. Come il barone palermitano Pietro Pisani, che nella prima metà dell’Ottocento si distinse come benefattore per la riorganizzazione della Real Casa dei Matti di Palermo (e l’episodio dà all’autore l’occasione di ricordare quella di Agrigento, che una volta visitò come giovane cronista, e alla cui porta c’è la scritta: ”Non tutti lo sono, non tutti vi sono”). Più affascinante è la figura di Francesco Ferdinando Gravina, principe di Palagonia, cui si deve la “Villa dei Mostri” di Bagheria, che Goethe – tre giorni dopo la visita che vi fece il 9 aprile 1787 – incontrò a Palermo a chiedere, con un vassoio d’argento   in mano, un obolo per il riscatto dei “prigioni” fatti dai corsari barbareschi. I “mostri” di Bagheria sono equiparati a quelli di Bomarzo, nei pressi di Viterbo, partoriti dalla fantasia del principe Pier Francesco Orsini, detto Vicino: gli uni e gli altri costituiscono un “bastione apotropaico, non un grottesco, gratuito carnevale architettonico” (p. 431).

   Il libro si chiude infine con una visitazione ai luoghi “dell’anima”, cioé Cefalù, Naro, Capo Calavà, Caltabellotta e Taormina e con quel trompe-l’oil che fu l’isola Ferdinandea, che nel 1831 emerse e riabissò al largo di Sciacca, appena in tempo per sedare le liti sul suo possesso da parte delle potenze egemoni a quel tempo.

Giornalista professionista dal 1972, Matteo Collura nato ad Agrigento, ha iniziato la carriera giornalistica al Giornale di Sicilia, per poi passare al quotidiano L’Ora. È stato corrispondente da Milano per Il Mattino. Per un breve periodo è stato capo ufficio stampa della Rizzoli, editoriale libri. Dal 1985 al 2005 è stato redattore culturale del Corriere della Sera, per il quale ha scritto fino al 2016. Attualmente scrive editoriali e articoli di cultura per Il Messaggero. In letteratura ha esordito nel 1979 con il romanzo Associazione indigenti, pubblicato nella collana “Nuovi Coralli” di Einaudi, su approvazione di Italo Calvino. A Leonardo Sciascia, di cui è stato amico, ha dedicato la biografia (Il maestro di Regalpetra, 1996-2019), seguita, nel 2002, da Alfabeto eretico (Da Abbondio a zolfo: 58 voci dall’opera di Sciascia per capire la Sicilia e il mondo d’oggi). È autore di una biografia romanzata di Luigi Pirandello. Conosciuto soprattutto per i numerosi libri dedicati alla sua terra d’origine. Tra i titoli più importanti: In Sicilia, L’isola senza ponte, Sicilia la fabbrica del mito, Sicilia Sconosciuta. Dell’ottobre 2020 è Baci a occhi aperti – La Sicilia nei racconti di una vita (TEA Edizioni). È autore di un racconto giornalistico del Novecento italiano e della versione teatrale del romanzo Todo modo di Leonardo Sciascia. Vive a Milano dal 1978.

*Sergio Spadaro – Critico letterario (Milano)

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