Le mafie siamo (anche) noi: complicità quotidiane e rimozioni collettive

Nel giorno della memoria di Falcone, ci chiediamo se davvero stiamo onorando il suo sacrificio. Le mafie non sono sparite: hanno solo cambiato pelle. Oggi non uccidono, ma investono. E ci somigliano più di quanto vorremmo.

di Francesco Mazzarella

[✓] Parte 3 – Le mafie siamo (anche) noi: complicità quotidiane e rimozioni collettive

Parte 1Dopo Capaci: la mafia ha smesso di sparare, non di comandare

Parte 2Le mafie in giacca e cravatta: quando il crimine diventa finanza

Le mafie oggi non vivono solo nelle famiglie criminali, nei clan o nelle imprese infiltrate. Le mafie vivono anche nei nostri silenzi, nelle nostre scelte quotidiane, nei nostri compromessi. Vivono nella zona grigia in cui lo Stato, l’economia e la società civile si sfiorano senza mai veramente incontrarsi. In cui tutto è lecito finché non è scoperto. In cui il “così fan tutti” diventa alibi e normalità.

La mafia che ci assomiglia

Là dove un tempo sparava, oggi la mafia osserva. E si compiace di quanto il suo modus operandi si sia insinuato nei pensieri e nei comportamenti delle persone comuni. La mafia ci guarda e ride quando accettiamo il lavoro in nero, quando compriamo un capo contraffatto, quando chiediamo la fattura solo se “serve”.

Ci somiglia quando giustifichiamo piccoli favoritismi, quando chiudiamo un occhio su chi imbroglia, quando confondiamo il furbo con l’intelligente. L’economia del favore è la palestra della mafia. La cultura del profitto a ogni costo ne è il carburante.

Le complicità inconsapevoli

Non tutti siamo mafiosi. Ma molti, a volte, diventiamo complici senza saperlo. Quando scegliamo di non denunciare. Quando difendiamo il nostro orticello senza preoccuparci del bene comune. Quando pensiamo che tanto non cambia nulla.

Il sociologo Luciano Brancaccio ha parlato di “neutralizzazione della responsabilità collettiva”: la tendenza a pensare che la mafia sia altro da noi, lontana, folkloristica. Ma questa distanza è solo apparente. Le mafie prosperano grazie a noi, non nonostante noi.

La mafia della rimozione e della dimenticanza

Ogni 23 maggio, ogni 19 luglio, l’Italia si ferma. Ricorda, commemora, ascolta discorsi solenni. Poi, il giorno dopo, tutto torna come prima. È la rimozione il vero nemico della memoria. La mafia vince quando la memoria diventa rituale, vuota, ripetitiva.

Una docente di liceo, intervistata per questa inchiesta, ci ha raccontato: “I miei studenti piangono ascoltando le parole di Borsellino, ma pochi giorni dopo difendono l’amico che salta la fila all’esame grazie alla raccomandazione. Capiscono il dolore, ma non la coerenza.”

Il linguaggio come strumento di potere

Le mafie hanno anche imparato a usare le parole. Hanno capito che il linguaggio può essere arma. Si presentano come “imprenditori alternativi”, “operatori economici emergenti”, “benefattori del territorio”. Dietro queste etichette si nasconde l’illusione del bene comune, manipolata per fini privati.

Ma il linguaggio è anche lo specchio di una società che, troppo spesso, ha smesso di chiamare le cose con il loro nome. Oggi la parola “mafia” spaventa più chi la pronuncia che chi la incarna. E questo silenzio, questo pudore linguistico, diventa spazio fertile per il crimine.

Società civile: vittima o complice?

Ci sono territori dove la mafia è l’unica agenzia di welfare. Dove lo Stato è assente, l’impresa privata fuggita, e l’unica sicurezza arriva dal boss di zona. In questi contesti, il confine tra vittima e complice si fa sfocato.

Chi accetta un pacco alimentare da un clan per sfamare i figli è un mafioso? Chi lavora per un’azienda in odore di mafia perché non ha alternative è da condannare? Il giudizio facile è ingiusto. Ma lo è anche la resa morale. Serve invece un’etica concreta, che riconosca il contesto ma non rinunci alla responsabilità.

Cultura, educazione e comunità: i veri anticorpi

La lotta alla mafia non si vince solo nei tribunali o con le forze dell’ordine. Si vince prima: a scuola, nei centri di aggregazione, nelle famiglie, nei media. Si vince creando comunità capaci di generare senso, appartenenza, alternative.

Le esperienze di Libera, delle cooperative sui beni confiscati, delle scuole che promuovono cittadinanza attiva sono modelli da sostenere. Non come eccezioni eroiche, ma come nuove normalità.

Un ragazzo di una cooperativa di Corleone ci ha detto: “Lavorare in un campo confiscato non è solo un lavoro. È un atto politico. È dire che qui la mafia ha perso. E che noi siamo vivi, testardi e liberi.”

Conclusioni: dal tritolo alla finanza, dalla paura alla responsabilità

Se un tempo la mafia terrorizzava con il tritolo, oggi conquista con la seduzione. Se prima imponeva con la forza, oggi convince con l’efficienza. Se prima si nascondeva nelle campagne, oggi risiede nei consigli d’amministrazione.

Eppure, la sua forza resta fragile: dipende dal nostro silenzio, dalla nostra paura, dalla nostra complicità. Spezzare questo cerchio è possibile, ma richiede un cambiamento profondo. Non solo delle leggi, ma delle coscienze.

Onorare Falcone e Borsellino, oggi, significa non lasciarli soli. Non solo nella memoria, ma nella scelta quotidiana di essere cittadini consapevoli, operatori di verità, testimoni di giustizia.

Le mafie ci guardano e ridono, è vero. Ma possono anche tremare. Se, finalmente, smettiamo di guardarci altrove. E iniziamo a guardarci dentro.

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