
di Francesco Mazzarella
[✓] Parte 1 – Dopo Capaci: la mafia ha smesso di sparare, non di comandare,
Parte 2 – Le mafie in giacca e cravatta: quando il crimine diventa finanza (esce il 25 maggio)
Parte 3 – Le mafie siamo (anche) noi: complicità quotidiane e rimozioni collettive (esce il 27 maggio)
Il 23 maggio 1992, alle 17:58, un’esplosione squarciava l’autostrada A29 all’altezza dello svincolo di Capaci. Cinquecento chili di tritolo posizionati in un tunnel sotto il manto stradale cancellarono le vite del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti della scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. L’Italia intera fu costretta a guardare in faccia il volto feroce della mafia. E per un attimo, sembrò decisa a combatterlo.
Quel momento, tragico e simbolico, segnò un prima e un dopo. Ma non nel modo in cui molti avrebbero voluto. Le stragi di Capaci e, meno di due mesi dopo, di via D’Amelio con l’assassinio di Paolo Borsellino, segnarono l’apice di una strategia del terrore da parte di Cosa Nostra. Eppure, paradossalmente, rappresentarono anche l’inizio della sua metamorfosi più radicale.
La fine della mafia “militare”?
Dopo il 1992, lo Stato rispose con forza. Le indagini, i maxiprocessi, l’inasprimento delle leggi antimafia e l’arresto di numerosi boss segnarono una stagione di apparente riscossa. Ma fu davvero una vittoria? Oppure un cambio di passo, una ritirata strategica delle mafie verso terreni meno esposti ma ben più redditizi?
La mafia non ha smesso di esistere. Ha smesso di sparare in pubblico. Ha lasciato la scena, ha spento i riflettori. Ma dietro le quinte ha continuato a esercitare il suo potere, mutando pelle, lessico, strumenti. Il crimine organizzato ha imparato a mimetizzarsi, a parlare il linguaggio della finanza, dell’economia, dell’impresa.
I segnali della mutazione
Già a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la magistratura e le forze dell’ordine cominciarono a notare un cambio di rotta. Le intercettazioni mostravano un lessico diverso. I capi parlavano di investimenti, appalti, subappalti, compravendite immobiliari, stock options. Il nuovo potere mafioso non si esercitava con la lupara, ma con il laptop.
Un collaboratore di giustizia, intervistato nel 2004, disse: “Un tempo si ammazzava per controllare un quartiere, oggi si lavora per gestire una filiera di supermercati o per piazzare i soldi nel settore energetico.”
La mafia “liquida” del nuovo millennio
I sociologi la definiscono “mafia liquida”. Invisibile, adattiva, fluida. Le sue armi non sono più i kalashnikov, ma le società offshore. Non sequestra, acquisisce. Non minaccia, persuade con investimenti. E spesso, non ha nemmeno più bisogno di corrompere: trova già disponibili professionisti compiacenti, imprenditori in cerca di liquidità, politici pronti a chiudere un occhio in cambio di consenso.
Ecco perché, oggi, è così difficile individuarla. Le vecchie fotografie in bianco e nero dei boss con la coppola non servono più. La mafia contemporanea veste in modo impeccabile, frequenta ambienti istituzionali, parla di sviluppo e innovazione.
Il silenzio che fa più rumore delle bombe
Nel giorno della memoria di Falcone, ci si chiede se le commemorazioni, le fiaccolate e le parole al vento abbiano davvero senso. La mafia, nel frattempo, ride. Non di noi come cittadini, ma della nostra inconsapevolezza. Della nostra capacità di indignarci per una strage e di accettare, il giorno dopo, che il nostro Comune affidi appalti a società in odor di mafia. Ride della nostra ipocrisia.
Il silenzio, oggi, è il nuovo rumore della mafia. Un silenzio fatto di connivenze, di ignoranza, di rimozione. Le mafie non sparano più, ma controllano fette intere dell’economia. E se provi a parlarne, rischi ancora. Non la vita, forse, ma la carriera, l’isolamento, la denigrazione.
Giovani, informazione e memoria tradita
Le nuove generazioni conoscono i nomi di Falcone e Borsellino. Ma spesso, questi nomi sono confinati a pagine di libri o a progetti scolastici una tantum. Non è colpa dei ragazzi, ma di un sistema educativo che troppo spesso insegna la mafia come fosse una parentesi storica, anziché una struttura criminale ancora attiva e pervasiva.
Molti giovani non sanno che i boss di oggi investono in criptovalute, sono presenti nei servizi di logistica internazionali, nelle piattaforme di e-commerce, nella green economy. Non sanno che possono trovarsi dentro una filiera mafiosa anche semplicemente acquistando merce contraffatta online o lavorando in nero per un’azienda intestata a un prestanome.
Testimonianze: chi non si è voltato dall’altra parte
A parlare, per questa inchiesta, è Anna, dirigente di un istituto superiore di Napoli: “Da noi Falcone e Borsellino non sono due statue da mettere all’ingresso. Sono il punto di partenza di un lavoro costante con i ragazzi: li portiamo nei beni confiscati, li facciamo parlare con i magistrati, gli facciamo toccare con mano cosa vuol dire ‘mafia oggi’. E alcuni, dopo, cambiano sguardo.”
Francesco, cronista giudiziario freelance, aggiunge: “Non è vero che la mafia non c’è più. C’è eccome, solo che non fa più notizia. Ma c’è anche tanta gente che la combatte ogni giorno, senza clamore. E senza scorta.”
Conclusione: se vogliamo davvero onorare i morti di mafia
Onorare i morti di mafia non significa solo ricordare la loro morte. Significa capire come è cambiato il nemico, smettere di cercarlo nei luoghi comuni, individuarlo nei nostri gesti quotidiani, nelle scelte economiche e civili. Significa fare memoria attiva, interrogarsi, rompere il silenzio, pretendere trasparenza.
La mafia oggi non ha bisogno di uccidere, perché sa che il vero potere è quello di rendersi simile a noi, di infiltrarsi nelle crepe della nostra distrazione. Ma è proprio lì che possiamo fermarla: accendendo la luce dove altri preferiscono il buio.
E allora, forse, quel tritolo di Capaci di via D’Amelio …. non sarà stato invano.
Parte 2 – Le mafie in giacca e cravatta: quando il crimine diventa finanza (esce il 25 maggio)
Parte 3 – Le mafie siamo (anche) noi: complicità quotidiane e rimozioni collettive (esce il 27 maggio)