Questo è l’ennesimo attacco alla politica anti-migranti del presidente ungherese Viktor Orban. La Corte di giustizia europea (CGCE) ha condannato Budapest giovedì (17 dicembre) per aver violato il diritto d’asilo dell’UE.
La Corte aveva già stabilito a maggio che i richiedenti asilo erano stati trattenuti senza un buon motivo nei campi nelle “zone di transito” al confine con la Serbia, e aveva preteso che venissero allontanati. Questo ha portato il governo ungherese a chiudere i controversi campi, aperti nel 2015.
Ostile all’accoglienza dei richiedenti asilo, l’Ungheria era stata condannata in aprile – così come la Polonia e la Repubblica Ceca – per aver rifiutato una quota per l’accoglienza dei rifugiati decisa nell’ambito del programma lanciato nel 2015 per la distribuzione per Stato membro di decine di migliaia di richiedenti asilo (la cd Relocation).
La sentenza del 17 dicembre 2020 della CGUE (l’organo giuridico che valuta l’applicazione delle leggi europee tra gli Stati membri) colpisce direttamente la già citata legge del 2015, la quale era stata adottata in risposta alla c.d. Emergenza Nord Africa. Questa prevedeva l’istituzione di zone di transito al confine serbo-ungherese in cui detenere i richiedenti protezione internazionale, valutare le loro richieste di asilo e, lo scopo principe era quello di effettuare i respingimenti quasi sommari verso la Serbia. Nel 2017 è stata poi introdotta una nuova legge ancora più dura, che aveva eliminato il periodo massimo di detenzione di un richiedente asilo, che era di quattro settimane (già superiore quindi alla normativa UE). Nel 2018 vi era stato poi, come già riportato da PaeseItaliaPress, il pacchetto di leggi c.d. Stop Soros, che criminalizzava la solidarietà nei confronti delle popolazioni migranti.
Dunque la Corte Europea, sulla scorta di tali politiche e del contrasto delle stesse rispetto ai trattati europei, di cui l’Ungheria è effettivamente parte, ha stabilito che «l’Ungheria è venuta meno al proprio obbligo di garantire un accesso effettivo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale, in quanto i cittadini di paesi terzi che desideravano accedere, a partire dalla frontiera serbo-ungherese, a tale procedura si sono trovati di fronte, di fatto, alla quasi impossibilità di presentare la domanda». Oltretutto, ha evidenziato che «il sistema di trattenimento è stato instaurato al di fuori dei casi previsti dal diritto dell’Unione e senza rispettare le garanzie che devono normalmente disciplinarlo», tra le quali la già indicata regola del limite temporale di trattenimento, che non può essere indefinito (come previsto dalla legge del 2017).
Infine, la Corte ha condannato l’Ungheria per aver infranto l’obbligo di non refoulement (principio di diritto consuetudinario internazionale, quindi valido in tutto il mondo) che prevede l’obbligo di non respingere un richiedente asilo verso un Paese in cui potrà subire tortura e/o trattamenti inumani e degradanti o verso un Paese che con ogni probabilità rimpatrierà il richiedente verso un Paese terzo in cui si violano sistematicamente i diritti umani. Insomma l’esatta fotografia della Serbia, Paese terzo, poiché non appartenente all’UE, e contraddistinto da una lunga storia di violazione dei diritti umani, soprattutto delle popolazioni migranti. Al pari, l’Ungheria è stata condannata per non aver ottemperato all’obbligo di non rimpatriare un richiedente asilo, fino al termine della procedura di appello (ricorso contro un rigetto della domanda di protezione).
Quindi l’Ungheria, e con essa l’ultranazionalista Victor Orban, incassano la terza condanna consecutiva del 2020, mostrando l’inadeguatezza di questo Paese nel rispetto dei diritti umani e quindi della sua adeguatezza rispetto allo spirito, ai valori e alle tradizioni europee di accoglienza. La speranza è che queste condanne non siano utilizzate dallo stesso Orban a scopo di propaganda negativa contro i migranti, come fatto da numerosi altri suoi esimi colleghi, ma che possano essere l’inizio di un cambio di rotta di un Paese che finora ha dato più peso agli Accordi di Visegard che a quelli dell’Unione Europea.