Ankara , 07 luglio 2020 – La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan ha installato 39 avamposti militari nel nord dell’Iraq, coprendo un’area pari a circa un terzo dell’antica provincia ottomana di Mosul, tra il fiume Tigri e l’affluente Caprus. In alcuni casi si tratta di semplici uffici di collegamento militare: è questo il caso di Erbil, Dohuk e Zakho, dove non si può parlare di una vera e propria occupazione turca. Anche la base militare di Soran, peraltro, teoricamente rientra nella Coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato islamico. Si tratta però di numeri che danno un’idea del crescente iperattivismo muscolare di Ankara nella regione del Medio Oriente allargato. Uno dei motori che muove l’apertura di sempre più nuovi fronti esteri da parte di Ankara è il tentativo di controbilanciare con una politica espansionista per cui è ormai invalsa l’etichetta di “neottomana” una crisi interna che abbraccia tanto la politica quanto l’economia. In quest’ultimo ambito, l’impatto del coronavirus sull’economia turca si è rivelato essere pesante, tanto da spingere l’agenzia di rating Fitch a tagliare per la seconda volta in due mesi le previsioni di crescita per il paese, passando da una contrazione del 3 per cento pronosticata in maggio a una del 3,9 per cento a fine giugno. Ciononostante, Erdogan si è espresso in maniera estremamente positiva sulla ripresa dell’economia turca, come già prima di lui il ministro delle Finanze – e cognato del presidente – Berat Albayrak.
Per Erdogan la situazione non è rosea neppure sul fronte politico interno. La risposta del presidente a una declinante popolarità è una serie di iniziative che oscillano dalla proposta populista – in quanto ammiccante agli elettori più conservatori – di trasformare il complesso museale di Santa Sofia in moschea a provvedimenti di aperta repressione nei confronti dell’opposizione, i quali spaziano dalla destituzione di sindaci curdi alla chiusura di un’università fondata dall’ex alleato Ahmet Davutoglu, passando per una contestata riforma dell’ordine degli avvocati, una stretta decisa sui social media e i periodici arresti di presunti seguaci di Fethullah Gulen, accusato da Ankara di avere ordito il fallito golpe del luglio 2016.
Il fronte aperto più recentemente da Erdogan nel tentativo di compensare l’infelice quadro interno è quello iracheno. Il 15 giugno, le forze armate turche hanno annunciato l’avvio dell’operazione aerea “Artiglio d’aquila” nelle regioni settentrionali dell’Iraq tramite attacchi aerei contro nascondigli del Partito dei lavoratori del Kurdistan, ritenuto da Ankara organizzazione terroristica. Il 17 giugno, un’ulteriore operazione di terra è stata lanciata con il nome “Artiglio di tigre”, consistente nel dispiegamento di truppe di terra nella regione di Haftanin, sempre nel nord dell’Iraq. All’inizio delle attività turche, nei giorni successivi si sono aggiunti bombardamenti iraniani nel distretto di Haji Omaran, appartenente alla provincia curdo-irachena di Erbil e confinante con l’Iran.
Secondo fonti vicine alle Guardie della rivoluzione iraniane citati dal portale curdo-iracheno “Rudaw”, Ankara e Teheran avrebbero deciso di unire le forze per combattere insieme ciò che definiscono “terrorismo” transfrontaliero nella regione curda. Una smentita in tal senso è tuttavia arrivata a fine giugno da parte del portavoce del ministero degli Esteri dell’Iran, Abbas Moussavi, il quale ha dichiarato che la concomitanza tra gli attacchi aerei condotti dalla Repubblica islamica e dalla Turchia nel Kurdistan iracheno non è altro che una coincidenza. Mossavi ha affermato che “combattere il terrorismo è parte del lavoro congiunto tra paesi nella regione, inclusi Iran, Turchia e Iraq”, aggiungendo che la Repubblica islamica è solamente impegnata nella difesa dei propri confini.
La risposta di Baghdad non si è fatta attendere e già il 18 giugno il ministero degli Esteri dell’Iraq ha convocato gli ambasciatori di Iran e Turchia in Iraq, Iraj Masjedi e Fatih Yildiz. Per quest’ultimo si è trattata della seconda convocazione nel giro di una settimana. L’invito del dicastero degli Esteri a un’immediata interruzione delle azioni militari è stato ribadito nelle scorse settimane anche dal presidente della Repubblica irachena Barham Salih, oltre che da alcuni paesi arabi – tra cui l’Arabia Saudita in prima linea – i quali hanno condannato ingerenze esterne lesive della sovranità e dell’integrità territoriale irachena. Ciononostante, le attività militari turche sono proseguite e sono tuttora in corso. Anzi, il ministero degli Esteri di Ankara ne ha annunciato la continuazione in quanto metodo legittimo di difesa del territorio turco garantito dal diritto internazionale, pur mantenendo aperta la porta della collaborazione con Baghdad nella lotta congiunta al Pkk.
Se si affiancano le aree delle operazioni delle citate operazioni “Artiglio d’aquila” e “Artiglio di tigre” nel nord dell’Iraq a quelle della presenza della Turchia – diretta o indiretta tramite milizie da essa appoggiate – in Siria come conseguenza delle operazioni “Scudo dell’Eufrate”, “Ramoscello d’ulivo” e la più recente “Sorgente di pace”, si delinea il disegno turco della creazione di una fascia di sicurezza ai propri confini epurata della presenze del Partito dei lavoratori del Kurdistan, interrompendone la contiguità territoriale con i propri militanti nella Turchia sud-orientale. A ciò si aggiunga che le aree settentrionali di Siria e soprattutto dell’Iraq vantano importanti risorse petrolifere (idrocarburi che le accomunano a un altro interesse precipuo dell’espansionismo turco, la Libia). Infine – a mo’ di legittimazione storica e strumento di propaganda da sfruttare tra i turchi più nazionalisti – si può ricorrere anche a una retorica irredentista ottomana che vede nelle regioni contigue dei paesi confinanti nient’altro che territori strappati alla Turchia “storica” dopo il primo conflitto mondiale.
Sulle ambizioni neo-ottomane turche, tuttavia, si staglia l’ombra della loro fattibilità. Nel caso specifico dell’Iraq, il contesto attuale è certamente favorevole ad Ankara. Sul piano intra-iracheno, i rapporti tra il governo federale di Baghdad e quello regionale curdo di Erbil navigano in cattive acque, ostaggio del mancato rispetto di accordi finanziari da parte dell’esecutivo curdo e di un contesto nazionale di emergenza sanitaria ancora grave e crisi economica causata da bassi prezzi del petrolio e taglio della produzione come da accordo Opec+. Sul piano securitario, l’Iraq si trova in mezzo a fuochi incrociati che spiegano parzialmente la reazione tutto sommato tiepida a bombardamenti turchi sul proprio territorio: da una parte i ripetuti lanci di razzi aventi l’aeroporto di Baghdad e la zona verde nel centro della capitale come obiettivi principali da parte – presumibilmente – di forze irachene pro-iraniane appartenenti alle Unità della mobilitazione popolare (Pmu) scontente del disarmo delle milizie pronosticato più volte dal premier Mustafa al Kadhimi, dall’altra uno Stato islamico (Is) le cui cellule residue hanno ripreso le proprie attività con decisione. Se poi si considera anche la mancanza di coordinamento nella cooperazione militare-securitaria tra Baghdad e i peshmerga di Erbil, ci si rende conto di quanto sia vulnerabile attualmente l’Iraq.
La situazione non fa che peggiorare se la si legge anche attraverso la lente degli attori internazionali. La coalizione a guida statunitense attiva in Iraq contro l’Is ha ceduto tra marzo e maggio il controllo di sei basi alle forze armate irachene, a conferma di una progressiva riduzione del proprio ruolo operativo (ben rappresentata anche dal rimpatrio di truppe da parte di vari paesi membri della coalizione) a favore di attività di consulenza. Quanto all’Iran, la Repubblica islamica sempre più isolata a livello internazionale e intimorita dalla crescente avversione nei confronti delle Pmu a essa legate non può che guardare con favore a una convergenza tattica – seppur negata – dei propri interessi con quelli della Turchia nel guadagnare terreno in Iraq.
Detto ciò, i nodi della politica estera turca rischiano di venire al pettine, sia in termini di dispendiosità che in termini di sostenibilità sul piano delle alleanze. Conciliare il ruolo di paese Nato con una pur contingente convergenza d’interessi di Teheran, riallacciamento dei rapporti con gli Stati Uniti (che sosterrebbero i curdi, almeno in Siria) dopo l’acquisto del sistema di difesa S-400 dalla Russia e tutto ciò senza alienarsi Mosca con cui si condividono ambiziosi disegni tanto in Libia quanto in Siria, rischia di rivelarsi un arduo compito anche per Erdogan. © https://www.agenzianova.com/