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In Myanmar prosegue la crisi senza fine dei Rohingya

Questa è la storia di un popolo che non trova pace, né casa, né una vita dignitosa. È la storia del popolo “più discriminato al mondo” come più volte dichiarato dalle Nazioni Unite. Un popolo che dal 1962 subisce le angherie, violenze e discriminazioni di un governo dispotico e totalitario, il regime militare birmano, guidato prima dal Generale TheinSein e oggi, dopo le prime elezioni democratiche del paese del novembre 2015, diretto ufficiosamente dal Premio Nobel per la pace (del 1990) e Consigliere di StatoAung San SuuKyi. È la storia dei Rohingya.

I Rohingya sono un popolo di religione musulmana sunnita stanziati da almeno 300 anni nello Stato del Rakhine, la regione più occidentale del Myanmar, al confine con il Bangladesh, che si affaccia sul Golfo del Bengala.

Dall’indipendenza della Birmania (nome cambiato in Myanmar negli anni 90 nel processo di nazionalizzazione del paese) fino al 1961, i Rohingya hanno vissuto come minoranza riconosciuta e accettata dalla popolazione e dal governo birmano. Tant’è vero che il progetto di legge sulla nazionalità, predisposto dal governo democratico, li ricomprendeva tra le minoranze ufficiali del paese. Con il colpo di stato del 1962, i Rohingya sono divenuti minoranza non accettata e stigmatizzata dalla giunta militare instauratasi e di conseguenza dalla maggioranza della popolazione di etnia burmese e religione buddista, in un’operazione di discriminazione volta al loro riconoscimento come immigrati irregolari provenienti dal Bangladesh e causa di ogni male del paese: povertà, disoccupazione, estremismo religioso ed eversione…storia già sentita?

Negli anni si sono susseguite violenze, uccisioni sommarie e arbitrarie, detenzioni illegali, stupri, distruzione di interi villaggi e due grandi migrazioni forzate ad opera delle forze di polizia birmana – Na.Sa.Ka. -: la prima a seguito dell’operazione Nagamin del 1978 (250.000 persone) e la seconda nel 2001 a seguito dei disordini che hanno sconvolto la regione del Rakhine State (oltre 200.000 persone). Il tutto coronato dalla propaganda governativa anti-Rohingya, mai riconosciuti con tale nome a livello ufficiale, e dalla famigerata  legge sulla cittadinanza (CitizenshipAct) del 1982 che espressamente espunse i Rohingya dalle minoranze riconosciute e li privò definitivamente della cittadinanza e di ogni altro diritto ad essa collegato (cioè di tutti i diritti primari).

Ciò è avvenuto all’oscuro, voluto o meno, della comunità internazionale.

Nel 2014 due giornalisti di Reuters, Jason Szep e Andrew Marshall, hanno svelato un traffico di esseri umani (tutti Rohingya) dal Myanmar alla Tailandia. Da quel momento i Rohingya hanno cominciato ad avere sempre maggior risonanza mediatica (anche se tuttora insufficiente rispetto alla gravità dei fatti avvenuti) fino alle recenti dichiarazioni dei relatori speciali delle Nazioni Unite per i diritti umani e gli ufficiali della altre ONG (Amnesty Internationalsu tutte). Da ultimo, il 6 marzo, Andrew Gilmour, Sottosegretario generale delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha dichiarato che “la pulizia etnica dei Rohingya birmani continua”. Alcuni studiosi si sono espressi anche in termini di un vero e proprio genocidio protratto inesorabilmente nel corso degli ultimi 50 anni. Ma finora non si è assistito a una reazione diretta della comunità internazionale, a differenza di quanto avvenuto in altre parti del mondo (come la Siria, per citare la più recente), ma dietro a questo punto ci sono ragioni ben distinte che verranno affrontate a breve.

È importante precisare che alle dichiarazioni dei sopracitati organismi si accompagnano le testimonianze di chi ha concretamente osservato la situazione in cui versano i Rohingya. Il che non è facile, né banale. Infatti a quasi tutte le ONG è fatto divieto di ingresso in Myanmar. La maggior parte delle informazioni (imparziali) conoscibili sul paese sono quindi limitate alle riprese satellitari. In Bangladesh, invece, il governo ha permesso l’intervento di ONG sul proprio territorio, in particolare su quella striscia di terra chiamata Cox’s Bazar.

Famosa per la sua spiaggia lunga più di 150 km con sabbia finissima, Cox’s Bazar è divenuta famosa ultimo anno per essere il luogo di accoglienza dei profughi Rohingya. “Il passaggio dal turismo della spiaggia al campo profughi arrangiato pochi metri nell’entroterra è impressionante” rivela Rosaria Grazia Domenella, psicologa delegata di Croce Rossa Italiana in Bangladesh, una di quelle persone che ha visto e vissuto realmente i luoghi della tragedia.

“Vivono in accampamenti sovraffollati, fatti di carta e plastica, totalmente dipendenti dagli aiuti umanitari” prosegue Domenella. Ed è proprio lì che si può assistere veramente alla “diaspora” dei Rohingya. Secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM) dal 25 agosto al 25 ottobre 2017 sono fuggiti a Cox’s Bazar circa 671.000 Rohingya, a cui si aggiungono i 212.000 giunti prima di agosto. Più della metà sono donne e bambini, di questi 26.000 sono orfani e il 22% di loro hanno perduto entrambi i genitori.

Se si considera che i Rohingya sono in tutto un milione, queste cifre (883.000) rendono bene l’idea di quanto massiccio e pericoloso sia questo evento. Soprattutto considerando che il restante, circa 200.000, risultano essere sfollati (IDP) e ridotti in una sorta di internamento in Myanmar.

Come detto poche organizzazioni riescono a intervenire sul territorio. Tra queste vi è il Movimento Internazionale di Croce Rossa che per il triennio 2017-2019 ha promosso la ‘PopulationMovementOperation Bangladesh’. Tale operazione è classificata come emergenza di livello rosso per l’elevato numero delle persone coinvolte, per la complessità politica della situazione, per le condizioni di povertà e bisogno in cui si trovano i Rohingya, e per i cambiamenti climatici che caratterizzano la zona (tra qualche settimana per esempio avrà inizio la stagione dei monsoni). A ciò si aggiungano, come opportunamente sottolineato dalla Dott.ssa Domenella, i circa “360.000 bambini che non frequentano la scuola da almeno un anno”, perdendo l’opportunità di studiare e di formarsi, e più di 360 villaggi bruciati o rasi al suolo, “visibili solo attraverso i satelliti”.

A fine 2017 è stato stretto un accordo tra Myanmar e Bangladesh concernente il rimpatrio dei Rohingya, ma ad oggi non sono ancora chiari i dettagli.

Ciò che è chiaro è che i Rohingya non piacciono al Myanmar. Ma perché?

Secondo Alessandro Niglia, professore di storia contemporanea all’Università LUISS di Roma, “i Rohingya sono percepiti come una realtà disgregante e che fa paura, un nemico per la popolazione”, ruolo fondamentale nei processi di ‘nation building’ per raccogliere il consenso e distogliere l’attenzione dalle reali intenzioni governative.

A livello internazionale, sebbene non vi sia un intervento condiviso, tale questione interessa molte potenze e sta assumendo le vesti, in senso lato, di una guerra fredda. Gli Stati Uniti, per esempio, con Trump hanno un ruolo molto più incisivo che con Obama sul territorio birmano, volto per lo più a limitare il potere della Cina. Però sul fronte Rohingya tale ruolo non giunge a compimento a causa della mancanza di dialogo con il mondo musulmano. Emerge comunque una paura di “balcanizzazione del territorio” o di creazione di una “nuova Palestina”, insieme all’insorgere di nuovi estremismi, che fa mantenere alta l’attenzione degli USA sul territorio, nonostante non sia stata ancora predisposta alcuna strategia.

Strategia invece delineata dalla Cina e riassumibile in tre punti: 1. Stabilizzazione della situzione; 2. Apertura di un dialogo diretto tra Bangladesh e Myanmar; 3. Rilancio dell’economia e dello sviluppo sul territorio, per favorire lo stabilizzarsi della situazione. Dietro gli interessi cinesi vi sono ovviamente interessi economici importanti e di natura politica.

Quanto ai primi si consideri la presenza di importanti giacimenti minerari a largo delle coste del Myanmar, ma soprattutto il ruolo strategico che esso ricopre come via di accesso per la Cina sul Golfo del Bengala. Infatti il c.d. Corridoio BCIM (questo è il nome dato al percorso seguito dai gasdotti in costruzione tra la provincia cinese dello Yunnan e la costa birmana) permetterebbe alla Cina di evitare il passaggio del greggio proveniente dal Medio Oriente (circa il 40% del totale a livello mondiale) per il Golfo di Malacca (tra Indonesia, Malesia e Singapore), bypassando così una zona ad alta concentrazione di pirati e ad egemonia statunitense. Il progetto da 2,45 miliardi di dollari è stato avviato nel 2015 con la costruzione di un porto, che ha dodici serbatoi di stoccaggio con una capacità di 83 milioni di litri ciascuno, a largo di Ramree Island e prosegue con la costruzione del gasdotto da 770 km. Questa operazione si sta svolgendo proprio nella regione dell’Arakan, dove vivono da sempre i Rohingya. Quindi non stupisce il fatto che sui terreni su cui sorgevanodecine di villaggi Rohingya incendiati e distrutti dall’esercito birmano,oggi, stando ai rilievi satellitari, siano in costruzione delle strutture dalle facezie militari, probabilmente presidi per il controllo del gasdotto.

A livello politico, la Cina sta fomentando gli accordi per il rientro dei Rohingya dal Bangladesh, onde evitare che la questione si internazionalizzi troppo. “Per i cinesi le crisi si aprono e chiudono nazionalmente”, non è auspicabile una situazione tipo Rwanda o Ex-Jugoslavia a forte influenza americana. Ad ogni modo uno scenario del genere ha pochissime chances di verificarsi, considerando la possibilità della Cina di porre il veto all’interno del Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite (organo deputato all’attivazione delle procedure di intervento armato).

In queste ultime ore si è tenuto un meeting dei paesi ASEAN (l’associazione dei paesi del sud est asiatico) a Sidney, dal quale è trapelata la notizia della richiesta di aiuto e supporto da parte di Aung San SuuKyi all’associazione e all’Australia da un punto di vista umanitario e di strutture per la crisi Rohingya. Tutto ciò deve essere ancora confermato, soprattutto il riferimento ai Rohingya con tale accezione, poiché neanche la leader premio Nobel si è mai riferita a questo gruppo etnico con questo nome, in continuità con la stigmatizzazione militare antecedente al suo governo.

Ciò che è sicuro è che la crisi è in corso e non se ne vede la fine. Il Bangladesh, non proprio uno dei paesi più agiati al mondo, continua a subire una pressione demografica e migratoria opprimente, senza essere in grado di affrontarla neanche da un punto di vista assistenziale. Probabilmente l’accordo Myanmar-Bangladesh per il rimpatrio verrà attuato e si assisterà all’ennesimo pingpong umano (come nel 1979 e nel 2002). E, in questo macabro scenario, i Rohingya continueranno a vivere di stenti, senza una nazionalità, senza una casa, senza il diritto a vivere (?).