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Un Paese in crescita ma senza obiettivi sistemici. E il futuro resta incollato al presente, tra sfiducia e rancore

Il 51 esimo rapporto del Censis fotografa unPaese che si sta lentamente rialzando dopo i faticosi  anni della crisi: manifatturiero e turismo sono gli elementi cardine della ripresa. Attraverso i consumi torna il primato dello stile di vita: gli italiani cercano un benessere soggettivo nella felicità quotidiana. Ma il dividendo sociale della ripresa economica non è distribuito e per questo il blocco della mobilità sociale finisce per creare rancore. Persistono inoltre “trascinamenti inerziali”:  il rimpicciolimento demografico del Paese, la povertà del capitale umano immigrato, la polarizzazione dell’occupazione che penalizza l’ex ceto medio e l’immaginario collettivo che ha perso la forza propulsiva di una volta. E il  risentimento  e la sfiducia condizionala domanda politica di chi è rimasto indietro.

E l’industria va

Tutti gli indicatori economici lo confermano: l’industria è la leva motrice della ripresa economica del Paese: Fanno eccezione gli investimenti pubblici, che nel 2016 si sono attestati su un valore ancora pari al 32,5% in meno, in termini reali, rispetto a quelli dell’ultimo anno prima della crisi (il 2007). Invece dal primo trimestre del 2015 in poi la produzione industriale italiana ricalca, e in qualche caso supera, le performance dell’industria tedesca. Guardando i dati degli ultimi due anni, si osserva una crescita costante, che culmina nel primo semestre del 2017 con una variazione positiva del 2,3%: la migliore tra i principali Paesi europei. E cresce al +4,1% nel terzo trimestre dell’anno. L’industria manifatturiera è stata in grado di far crescere il valore aggiunto per addetto del 22,1% in sette anni, portandolo a quasi 68.000 euro. Va bene anche l’export: la quota dell’Italia sull’export manifatturiero del mondo è oggi del 3,4%, con posizioni di assoluto riguardo in alcuni comparti del made in Italy. E nell’ultimo anno il numero di aziende quotate alla borsa italiana è cresciuto da 312 a 324 unità, con una crescita del settore industriale da 59 a 84,2 miliardi di euro.

Ben il 78,2% degli italiani si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce: dopo gli anni di severo controllo dei consumi, torna il primato dello stile di vita e del benessere soggettivo, dall’estetica al tempo libero. Il 45,4% della popolazione  è pronto a spendere un po’ di più per poter fare almeno una vacanza all’anno, il 40,8% per acquistare prodotti alimentari di qualità, il 32,3% per mangiare in ristoranti e trattorie, il 24,7% per comprare abiti e accessori a cui tiene, il 17,4% per il nuovo smartphone, il 16,9% per mostre, cinema, teatro, spettacoli, il 15,2% per attività sportive, il 12,5% per abbonamenti pay tv o a piattaforme web di intrattenimento.

Negli ultimi dieci anni, le famiglie hanno destinato ai servizi culturali e ricreativi una spesa crescente: +12,5% nel periodo 2007-2016, contro il -9,6% nel Regno Unito, -8,1% in Germania, -7% in Spagna (solo in Francia si è registrato un +7,7%, comunque meno che in Italia). Nell’ultimo anno il 52,2% degli italiani (29,9 milioni) è andato al cinema: +5,1% in un anno e +6,7% di biglietti venduti. Gli italiani visitatori di musei e mostre (il 31,1% della popolazione: 17,8 milioni) sono aumentati del 4,1% e gli ingressi del 6,4%. Si segnala poi il boom di acquisti di device digitali: smartphone +190% nel periodo 2007-2016, personal computer +45,8%.

L’Italia è sempre più un polo attrattivo per il turismo domestico e internazionale. Nel 2016 gli arrivi complessivi hanno sfiorato i 117 milioni e le presenze i 403 milioni, con una componente dei visitatori stranieri attestata al 49% del totale. Nel primo semestre del 2017 gli arrivi crescono di un ulteriore 4,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e le presenze del 5,3%: in soli sei mesi abbiamo avuto 2,7 milioni di visitatori in più, con oltre 10 milioni di pernottamenti aggiuntivi.

Negli ultimi anni la popolazione residente nei capoluoghi italiani è cresciuta di più rispetto alle cinture. Tra il 2012 e il 2017 nell’area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9%, quelli dell’hinterland del 7,2%. A Milano l’incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a Firenze del 7% e del 2,8%.  Ma la crescita economica non sempre è andata di pari passo, negli anni dal 2007 al 2014, in cui il Pil del Paese è calato del 7,8%. Le grandi aree urbane del Sud, quelle di Napoli, Palermo e Catania, hanno registrato un vero tracollo, perdendo circa il 14%; le città metropolitane di Genova, Torino e Bari hanno registrato un calo superiore alla media nazionale (circa 10 punti percentuali); l’area romana (-8,6%) e quella veneziana (-7,2%) hanno avuto una dinamica negativa sostanzialmente in linea con quella del Paese; i territori delle città metropolitane di Firenze (-5,3%) e di Bologna (-4,7%) hanno contenuto le perdite; l’area milanese ha registrato di gran lunga la performance migliore, con una contrazione del valore aggiunto inferiore a 3 punti percentuali. I divari del sistema urbano  si sono dunque ampliati.

Nel nostro Paese il 14,7% della popolazione di 15-74 anni è in possesso di una laurea o di un titolo equivalente (il 15,1% tra i nati in Italia): si tratta di una percentuale che ci pone decisamente al di sotto della media dell’Unione europea, che vede ben il 26,1% della popolazione in possesso di un livello di istruzione terziaria. Si tratta di un problema che parte da lontano e che risulta evidente anche dalle quote di studenti stranieri iscritti nelle università italiane, pari al 4,4% del totale. Nel Regno Unito gli stranieri iscritti alle università sono il 18,5% del totale, in Francia il 9,9%, in Germania il 7,7%. Manca dunque una visione strategica che, al di là delle necessità legate all’emergenza e alla prima accoglienza, ponga poi il tema della povertà dei livelli di formazione e di competenze del capitale umano che attraiamo.

Nel mondo del lavoro la polarizzazione dell’occupazione penalizza operai, artigiani e impiegati. Chi ha vinto in questi anni nella ripresa dell’occupazione si trova in cima e nel fondo della piramide professionale. Nel periodo 2011-2016 operai e artigiani diminuiscono dell’11%, gli impiegati del 3,9%. Le professioni intellettuali invece crescono dell’11,4% e, all’opposto, aumentano gli addetti alle vendite e ai servizi personali (+10,2%) e il personale non qualificato (+11,9%). Nell’ultimo anno l’incremento di occupazione più rilevante – segnala il Rapporto – riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci (+11,4%) nella delivery economy. Nella ricomposizione della piramide professionale aumentano dunque le distanze tra l’area non qualificata e il vertice. E se tra il 2006 e il 2016 il numero complessivo dei liberi professionisti è aumentato del 26,2%, quelli con meno di 40 anni sono diminuiti del 4,4% (circa 20.000 in meno). La quota di giovani professionisti sul totale è scesa al 31,3%: 10 punti in meno in dieci anni. 

Il posto fisso, il social network, la casa di proprietà, lo smartphone, la cura del corpo sono i nuovi miti dell’immaginario collettivo della popolazione. Per gli ultrasessantacinquenni il posto fisso in azienda o nel pubblico impiego resta saldamente in cima alla graduatoria dei fattori ritenuti centrali (50,7%), insieme alla casa di proprietà (39,3%),   Nelle fasce d’età più giovani (i 14-29enni, con valori del tutto simili a quelli dei 30-44enni) I vecchi miti appaiono consumati e stinti, e la gerarchia dei simboli è sovvertita: i social network salgono al primo posto (32,7%) e anche lo smartphone (26,9%), la cura del corpo (dai tatuaggi al fitness, alla chirurgia estetica, cui si ricorre per rimodellare il proprio aspetto: 23,1%) e il selfie (21,6%) occupano le prime posizioni, mentre sono relegati in fondo, nelle ultime posizioni della graduatoria, sia il buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (il 14,9% tra gli under 30 e il 10,1% tra gli under 45), sia l’automobile nuova come oggetto del desiderio (rispettivamente, il 7,4% e il 10,1%).

Prevale la convinzione che sia difficile salire nella scala sociale: lo pensa l’87,3% degli italiani che sentono di appartenere al ceto popolare, l’83,5% del ceto medio, ma anche il 71,4% del ceto benestante. Al contrario, pensano che sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, ma anche il 62,1% delle persone più abbienti. In questo contesto, si fa strada l’avversione per i diversi, per chi potrebbe «accaparrarsi» fette di benessere: se il 47% degli italiani è favorevole ad aiutare rifugiati e profughi, ben il 45% è contrario, quota che sale al 53% tra gli operai e i lavoratori manuali, al 50% tra i disoccupati e addirittura al 64% tra le casalinghe. Tant’è vero che la reazione degli italiani in caso di matrimonio della figlia femmina con una persona di religione islamica è decisamente la più contraria.

Il 60% degli italiani si dichiara insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese. Il 64% è convinto che la voce del cittadino semplicemente non conti nulla. I dati segnalano la dimensione colossale dell’onda di sfiducia che ha investito la politica e i suoi soggetti: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo centrale, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, dalle Regioni alle amministrazioni comunali. L’insoddisfazione regna sovrana: il 75% degli italiani boccia i servizi pubblici, il 67% dichiara di non avere fiducia nella Pubblica amministrazione. E nelle critiche ci finisce pure l’euro: il 50,3% dei cittadini pensa che abbia impoverito la maggioranza degli italiani.