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In Myanmar il popolo non si arrende e parte l’ondata “rosa”

È oramai passato più di un mese da quel 1 febbraio, quando la giunta miliare con un coup d’etat in perfetta continuità con il primo del 1962 ha rovesciato la fragilissima democrazia birmana e ha riportato la legge marziale su tutto il Paese asiatico. Grazie anche al clamore mediatico e alla possibilità per i leader della Lega Nazionale per la Democrazia di comunicare efficacemente, la popolazione ha manifestato apertamente la propria avversione a una nuova era di dittatura, soprattutto alla luce degli sprazzi di democrazia goduti in questi brevi sei anni (dal 2015).

Proteste e repressioni, fisiche e telematiche, si sono susseguite quasi pedissequamente nel corso di questi giorni e hanno avuto il loro apice mercoledì scorso (il 3 marzo) quando le forze di sicurezza, nel loro utilizzare mezzi sempre più brutali per schiacciare le proteste della popolazione civile (come dimostrato di recente dal Times), hanno ucciso 38 persone. Per tale motivo mercoledì 3 marzo è stato ritenuto il “giorno più sanguinoso” del Myanmar dall’inizio del colpo di stato.

Tale massacro è stato denunciato apertamente anche da Christine Schraner Burgener, il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per il paese. La Burgener ha detto che i leader della giunta hanno respinto le sue richieste di visitare il paese e hanno ignorato i suoi avvertimenti sulle conseguenze di diventare un paria globale. Dal loro canto i cittadini birmani hanno implorato, inutilmente, un’azione internazionale.

Perciò sono scese in piazza centinaia di migliaia di donne per inviare un chiaro messaggio di rimprovero alla giunta militare del Paese. Le manifestanti rappresentano i sindacati in sciopero degli insegnanti, dei lavoratori dell’abbigliamento e degli operatori sanitari – tutti settori dominati dalle donne. Ed è per questo che le forze di sicurezza hanno ritenuto tali manifestanti come una nuova forma di pericolo anche per la tenuta economica del Paese. Le più giovani sono spesso in prima linea e, difatti, tre di loro erano tra le almeno 38 persone uccise mercoledì, tra cui Ma Kyal Sin di soli 18 anni.

La manifestazione tutta femminile ha inoltre uno spettro di denuncia molto più ampio di quanto si creda. Infatti, non ci sono donne negli alti ranghi dell’esercito, e i soldati hanno sistematicamente violentato le donne delle minoranze etniche, secondo Human Rights Watch. Più in generale, però, il ruolo delle donne nella politica, negli affari e nella produzione in Myanmar sta crescendo. Nelle elezioni di novembre, circa il 20% dei candidati della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito del leader civile deposto, Daw Aung San Suu Kyi, erano donne. Sono dati ovviamente insignificanti rispetto alle percentuali che viviamo in Europa, ma numeri molto rilevanti in un Paese patriarcale e purtroppo retrogrado sotto molti aspetti della vita politica, economica e sociale.

Di questo passo la dittatura della giunta militare chiederà un numero sempre maggiore di vite umane e vi sarà un peggioramento sistematico delle condizioni di vita di tutti i cittadini birmani. La seppur estremamente flebile speranza è che gli ostracismi politici di Russia e Cina possano subire un’inversione di rotta, quantomeno alla luce dei crimini contro l’umanità che sta compiendo la giunta militare.