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Colpo di Stato in Myanmar: Aung San Suu Kyi arrestata per possesso illegale di walkie-talkie

Trapelano ulteriori dettagli sul colpo di Stato che ha scosso il Myanmar e tutta la comunità internazionale lunedì scorso. In particolare, si avvicendano diverse notizie sulle accuse alla base degli arresti dei leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD). Per quanto riguarda la leader de facto Aung San Suu Kyi, le accuse sono di violazione delle leggi di importazione ed esportazione e possesso di dispositivi di comunicazione illegali, nella specie almeno 10 walkie-talkie. Invece l’ormai ex Presidente U Win Myint è stato accusato di aver violato le restrizioni da Coronavirus.

Queste accuse, bizzarre ed arcane, non sono una novità in Myanmar, soprattutto nei confronti delle opposizioni. Infatti Aung San si è già vista condannare a 15 anni di arresti domiciliari per motivazioni inconsistenti, giustificate solamente dall’estrometterla dalla scena politica nazionale. Ciò che il regime militare sta tentando di fare nuovamente. Ma questa volta il fattore “tempo” potrebbe essere decisivo, considerato che la leader del NLD ha 75 anni e la giunta militare ha già avviato un processo per smantellare le libertà ottenute dal NLD in questi 5 anni per la giovane e ormai morta democrazia birmana.

Come ci si poteva aspettare (e come già preannunciato in questo articolo [1]) non vi sarà una risposta neanche esclusivamente diplomatica da parte della comunità internazionale. Infatti, martedì 2 febbraio si è riunito in via straordinaria il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (l’organo operativo della più grande organizzazione internazionale). L’unico punto sull’agenda era il golpe in Myanmar e la presa di posizione da parte delle NU su tale vicenda. Tuttavia, il Consiglio (composto da Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Russia e Cina, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale per intenderci) ha rigettato l’ipotesi di emanare una dichiarazione di condanna nei confronti del Colpo di Stato in Myanmar. La decisione è stata presa ovviamente con l’opposizione ferma di Cina e Russia, unite nell’idea di non intervenire su territori alleati e ad esse connessi ideologicamente e economicamente. Su quest’ultimo punto si rammenta che la Cina ha un enorme accordo economico con il Myanmar legato alla distribuzione di idrocarburi. Il piano prevede infatti che le risorse petrolifere possano giungere sulle coste birmane (nello specifico nel Rakhine State, zona di provenienza dei Rohingya, casualità molto interessante) e attraversare il Paese per giungere in Cina, evitando così di passare per acque sotto il controllo indiretto degli Stati Uniti (come il Golfo delle Filippine).

In sintesi, queste sono le ragioni che rendono inoperativo l’unico organismo in grado di fare qualcosa, tuttalpiù di denunciare pubblicamente, per dare sostegno alla popolazione del Myanmar, vittima dell’ennesimo colpo di Stato che rimarrà impunito e che riporterà la situazione del Paese indietro come minimo di 9 anni.

Ora più che mai torna dunque d’attualità una riforma, potenzialmente impossibile, del Consiglio di Sicurezza ONU, legato in maniera ormai anacronistica ai retaggi del passato.