Il Tribunale di Roma ha deciso: no alle riammissioni a catena verso la Bosnia

Ordinanza importantissima quella del giudice romano che impedisce i rimpatri verso Paesi terzi nei quali le persone possano subire violazione dei loro diritti internazionali e europei
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È passata più di una settimana da quando si è descritta la tragedia che si sta tuttora consumando nei campi profughi in Bosnia-Erzegovina. Trattamenti inumani e lesivi di ogni diritto immaginabile, in un Paese (extra Unione Europea) che non vuole ottemperare alle richieste europee e delle organizzazioni umanitarie di agire e fornire almeno le cure primarie a migliaia di persone intrappolate al confine con la Croazia.

Oggi questa situazione è stata espressa compiutamente anche dal Tribunale di Roma in una ordinanza che per certi versi può risultare storica o comunque un precedente importante per future decisioni. Il giudice romano ha infatti deciso il 18.1.2021 che sono illegittime le riammissioni dei richiedenti asilo giunti in Italia verso la Slovenia, poiché a questo trasferimento ne seguono a catena altri, automatici, che conducono il richiedente in Bosnia, luogo in cui non si rispettano i diritti umani fondamentali.

Tuttavia, è consigliato prendere visione del contesto, per non lasciarsi fuorviare eccessivamente da questa notizia e per considerare la decisione nel giusto terreno che le appartiene.

In particolare il caso specifico ha riguardato un richiedente asilo pakistano, giunto in Italia a inizio 2020 e riammesso nel luglio dello stesso anno dall’Italia alla Slovenia, per poi essere automaticamente trasferito in Croazia e successivamente in Bosnia, secondo un meccanismo ormai rodato e consolidato di riammissioni a catena che spingono il richiedente fuori dall’Unione Europea.

Ma perché vengono effettuati proprio questo tipo di rimpatri e verso questi Paesi in particolare? Nel precedente articolo si è già trattato della cosiddetta Rotta Balcanica, quel percorso seguito da migliaia di migranti e rifugiati che porta dalla Grecia fino all’Europa, passando appunto per Paesi Balcanici come Bulgaria, Ungheria, Macedonia del Nord, Serbia e appunto Bosnia. Tutti questi Paesi sono fuori dall’Unione Europea, dunque non sono tenuti, tra le altre cose, a rispettare gli standard europei in materia di diritti umani sia per la propria popolazione che per la popolazione migrante. Per quanto riguarda invece Croazia e Slovenia, questi sono Paesi appartenenti all’UE, in cui tuttavia risultano esservi ancora gravi criticità sotto diversi profili, sottolineati già in precedenti articoli, sia sotto il profilo della violenza delle autorità di confine sia per i rimpatri illegittimi verso Paesi extra UE. Ciononostante questi rimangono pur sempre Paesi europei. Quindi secondo la normativa europea (Regolamento Dublino), in determinate condizioni, un richiedente che ha fatto ingresso e/o chiesto protezione in questi Paesi ed è successivamente entrato in un altro Paese, in questo caso in Italia, può essere giustamente rimpatriato nel Paese che viene ritenuto competente da parte delle autorità statali (nel caso italiano dal Ministero dell’Interno).

Questi rimpatri possono essere fatti però, come accennato, solamente qualora sussistano determinate condizioni e la persona soggetta al trasferimento non veda così violati i suoi diritti fondamentali. Su questi due punti ha fatto perno la decisione del Tribunale di Roma nell’ordinanza del 18 gennaio.

Il primo punto ritenuto illegittimo è stata la procedura di riammissione che viene attuata al confine con la Slovenia, sulla base di un accordo siglato tra Italia e Slovenia nel 1996, ma mai ratificato dal Parlamento. Dunque la base giuridica di tali riammissioni non è legittima, anzi praticamente non esiste. Inoltre le autorità rimpatriano i migranti in violazione delle norme internazionali, europee e italiane che regolano l’accesso alla procedura di asilo. Quindi i soggetti non ricevono alcun tipo di provvedimento che gli spieghi che cosa gli sta accadendo e la loro situazione individuale non viene esaminata, con un’evidente lesione, come costatato dal Tribunale romano, del diritto di difesa e alla possibilità di presentare un ricorso effettivo contro la decisione ritenuta ingiusta dell’autorità statale. Ciò non bastasse, il Tribunale ha evidenziato che le riammissioni sono state effettuate tramite un trattenimento (detenzione) non concesso dall’autorità giudiziaria, quindi in violazione di ogni diritto legato alla libertà personale, e in violazione dell’obbligo di non refoulement. Quest’ultimo, ormai codificato nel diritto internazionale e presente non da ultimo nella legislazione italiana, prevede il divieto per un Paese di rimpatriare una persona verso un qualunque Paese dove la persona potrebbe subire con ogni probabilità tortura e/o trattamenti inumani e degradanti. Questo è quello che avviene effettivamente al confine bosniaco-croato, come documentato da numerose organizzazioni umanitarie e in questo caso specifico dalle testimonianze del Border Violence Monitoring network, un network composto da organizzazioni del terzo settore presenti ai confini balcanici – tra cui No Name Kitchen, Collective Aid, Are You Syrious, Mare Liberum – che raccoglie tutte le storie di violenza che avvengono quotidianamente ai confini.

Dunque grazie a queste testimonianze e al lavoro delle avvocate ASGI Caterina Bove e Anna Brambilla, il Tribunale di Roma ha riconosciuto (secondo l’art. 10 comma 3 della Costituzione) il diritto del cittadino pakistano a rientrare in Italia e di accedere alla procedura di asilo, dichiarando formalmente illegittimi i respingimenti a catena verso Paesi in cui i diritti umani fondamentali sono violati sistematicamente e mettendo ancora più in luce le indicibili condizioni di vita a cui sono soggetti i migranti nell’attraversare la Rotta Balcanica.

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