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Le risposte al “villaggio globale” risiedono nel cuore e nell’intelligenza degli uomini

Fondazione Franco Verga C.O.I, con sede a Milano, si occupa di fornire servizi a supporto delle persone migranti e dei cittadini italiani all'estero. Abbiamo intervistato il presidente, Lino Duilio, classe 1951, quasi vent'anni di esperienza parlamentare alle spalle e attualmente impegnato in attività formative, sociali e culturali. Direttore di alcune riviste di cultura politica, ricordiamo tra alcune delle sue pubblicazioni, "Il partito aperto e i suoi oppositori” (Rubbettino, 2005), “Politica della legislazione, oltre la crisi” (Il Mulino, 2013).?“Alzarsi in volo” – Tra eccellenze diffuse e rischi di declino, il futuro dell’Italia (Compagnia della Stampa, 2014).

Questione migranti”. È un’espressione che si sente spesso, dalla televisione alla radio, dai giornali ai social media, il rischio forse è quello di generalizzare situazioni anche molto differenti fra loro.  Come descriverebbe lei la “questione migranti”?

Come una “drammatica questione mondiale”, relativa a grandi spostamenti di persone, che cercano di migliorare la propria esistenza e, per la gran parte, si lasciano alle spalle situazioni di miseria, guerre, persecuzioni e ogni altra forma di violenza.

Si tratta di un fenomeno balzato all’attenzione dell’opinione pubblica a seguito dei massicci spostamenti verificatisi in questi ultimi anni, ma è bene ricordare che i movimenti migratori sono stati, da tempo immemorabile, parte integrante della vita, e del progresso, delle popolazioni, sia pure con andamenti ciclici.

 

La Fondazione Franco Verga nacque con l’intento di aiutare coloro che partivano dal sud Italia alla ricerca di migliori prospettive nella capitale lombarda. Oggi si occupa di offrire servizi e sostegno alle persone migranti. I due fenomeni migratori si possono mettere a confronto secondo lei?

Vi sono, sicuramente, aspetti che li accomunano, ed altri che li differenziano. Tra i primi, ricorderei i grandi sacrifici di migliaia di persone che si allontanavano da affetti, famiglie, culture, per raggiungere destinazioni che promettevano un reddito e un’occupazione, ma scontavano anche disagi non banali, diffuse forme di sfruttamento, non infrequentemente condizioni di diffidenza quando non di vero e proprio razzismo (del tipo “non si affitta a meridionali”, dalla scritta che compariva su numerosi cartelli per le case da affittare). Tra i secondi, ricorderei una certa “omogeneità culturale” (penso all’ethos di radice cattolica presente, a livello latente o manifesto, in larga parte del popolo, al comune senso dell’unità nazionale, al clima “positivo” della ricostruzione successivo alla guerra, e via dicendo). In un contesto siffatto, la Fondazione Verga, che allora si chiamava C.O.I. (Centro Orientamento Immigrati), nato a Milano nel 1963 ad opera di Franco Verga ed alcuni suoi amici provenienti dal mondo cattolico, diede un grande contributo per l’“integrazione”, come si direbbe oggi, di quelle persone che dal Sud venivano al Nord del Paese. Un contributo che si sostanziò in un’organizzazione che andò ben oltre la città di Milano, e che in quindici anni circa si stima che aiutò concretamente (per la casa, la lingua, i servizi) 150.000 persone, in massima parte meridionali, “terroni”, come si diceva allora.

 

Nonostante gli insegnamenti ereditati dagli avvenimenti del secolo scorso, oggi capita ancora di assistere a manifestazioni di pregiudizio ed esclusione nei confronti di chi è “diverso”, alcune delle quali purtroppo sfociate in vere e proprie tragedie. Vero è anche che su molti media e per bocca di molti esponenti del mondo politico, accanto alla parola “migranti” spesso leggiamo o ascoltiamo parole che richiamano ostilità e paura. Qual è la sua opinione? Ci troviamo davvero dinanzi a una grave emergenza? Dobbiamo aver paura di tutte queste persone che arrivano nel nostro paese?

 

Il ruolo dei mass media assume un’importanza decisiva nelle società odierne. Viviamo infatti nelle “società dell’opinione pubblica”, politicamente nelle “democrazie dell’opinione pubblica”. Ma non esistono adeguate riflessioni su questo fenomeno, su questa categoria – dell’“opinione pubblica”, appunto – che è categoria volatile, emozionale, facilmente influenzabile quando non manipolabile, in particolare attraverso il meccanismo, tipico dei media, che eleva il fatto singolo a fatto generale, ingenerando convinzioni diffuse e unidirezionali, che non ammettono distinzioni. Ricordo, per rendere l’idea, che per alcuni anni abbiamo vissuto nel nostro Paese la fobia dell’albanese: giornali e televisioni davano conto, a getto continuo, di aggressioni, rapine, omicidi, di immigrati, clandestini e non, provenienti dall’Albania. La paura dell’albanese accompagnava i nostri pensieri e la nostra vita quotidiana, quasi che dappertutto, soprattutto di sera, potesse avvenire il fattaccio, in strada, in casa, sui mezzi pubblici. Poi …, poi il clamore mediatico ha ceduto il passo alla realtà, con quel fenomeno ridimensionatosi fino a quasi scomparire, per converso con la cronaca progressivamente impegnata, ma con minore risonanza, a documentare un flusso migratorio rovesciato, di italiani che si trasferiscono in Albania, dove vivono, avviano attività economiche, si sposano, e via dicendo. Gli albanesi, insomma, da quasi “mostri” sono diventati, nel bene e nel male, persone normali, come noi.

Mi sono soffermato un poco su questi aspetti non per negare i problemi, né tantomeno per ridimensionare un fenomeno che ha assunto dimensioni rilevanti, difficili da governare.

Come ho affermato in premessa, siamo di fronte a una “drammatica questione mondiale”, che richiede, però, di essere affrontata con serietà, intelligenza e lungimiranza, senza cedere all’emozionalità e all’allarmismo, sentimenti che aggravano i problemi senza risolvere nulla.

 

In una situazione così confusionaria e caotica, una piccola realtà come quella di Fondazione Franco Verga in che modo riesce a fare la differenza?

 

Noi siamo, appunto, una realtà piccola, che però ha alle spalle una storia che viene da lontano, la quale nel 1978, tre anni dopo la morte del fondatore, ha visto il C.O.I. trasformarsi in “Fondazione Verga”, aggiornando la sua mission per dedicarsi agli immigrati extracomunitari. 

Abbiamo dunque una memoria “lunga”, che può aiutare un poco, forse, ad affrontare i problemi attuali. Capitalizzando l’esperienza che andiamo conducendo nell’ambito della cosiddetta “seconda accoglienza”, grazie alla quale alcuni “fatti” da noi vissuti possono contribuire a diffondere buone pratiche e, cosa non meno significativa, a far sviluppare una diversa cultura nei confronti del fenomeno migratorio. 

 

In questi due anni di presidenza alla Fondazione Franco Verga qual è il suo bilancio?

 

Credo di poter dire che abbiamo fatto un buon lavoro. Introducendo innovazioni “di prodotto e di processo”, come si direbbe in termini aziendali. Abbiamo, cioè, affiancato ad attività tradizionali attività innovative, volte a soddisfare meglio alcuni bisogni degli immigrati. Qualche esempio, per rendere l’idea: abbiamo organizzato in alcuni ospedali corsi di formazione per operatori volontari e personale paramedico, al fine di tener conto delle diversità culturali degli ammalati non italiani o europei; abbiamo predisposto “corsi estivi” intensivi di lingua per ragazzi che provengono da altri continenti per ricongiungersi alle famiglie insediate in Italia, i quali si iscrivono poi alle scuole superiori del nostro Paese; abbiamo creato, in collaborazione con altri soggetti titolari di know how specifico, laboratori di formazione professionale per immigrati selezionati in base alle rispettive inclinazioni ed attitudini; abbiamo prodotto, con metodologie induttive, strumenti didattici molto apprezzati che saranno a breve immessi sul mercato, per l’insegnamento della lingua italiana, sia a livello generale che “applicato” (come un testo di “Italiano per il lavoro L2”). Sul piano più strettamente organizzativo, poi, abbiamo realizzato numerosi cambiamenti e – cosa che mi piace molto – “ringiovanito” e incrementato il numero dei collaboratori. Molto resta ancora da fare ma, complessivamente, mi sento di dire che il bilancio è positivo.

 

 

 

Lei ha alle spalle una grande esperienza, accumulata grazie al suo lavoro e al suo impegno. Qual è il suo consiglio per risolvere, o quantomeno provare a risolvere, la questione dei migranti?

 

La questione è molto complicata, soprattutto perché richiama profili di intervento diversi, per soggetti, politiche, durata. A livello nazionale, e a seguire su scala locale, sarà bene andare oltre, il prima possibile, la logica dell’emergenza e della security. Con una progettualità pluriennale che preveda livelli coordinati di intervento, istituzionali ma non solo, e risorse adeguate (la Germania spende ogni anno per i migranti quasi sette volte quello che spende l’Italia!), finalizzati a far conoscere la lingua e la cultura italiana, a promuovere percorsi di professionalizzazione e assecondamento di vocazioni personali dei nuovi arrivati, a sviluppare programmi di coesione sociale, a pubblicizzare, e dove possibile replicare, buone pratiche, a sostenere iniziative locali di insediamento monitorato di migranti, e via continuando. In questa linea, la collaborazione dell’associazionismo non profit può costituire, come di fatto sta accadendo, un fattore di sinergia fondamentale, sia nella logica della sussidiarietà che in quella di una complementarietà virtuosa tra pubblico e privato. Le esperienze citate, della nostra azione formativa in ambito ospedaliero e scolastico, rappresentano, nel nostro piccolo, un esempio tangibile di questa possibile prospettiva.

 

Che ruolo gioca l’Unione Europea in tutto questo?

 

Il discorso dell’Europa evoca la dimensione più ampia che fa il paio con quella nazionale, appena accennata. E purtroppo è sotto gli occhi di tutti l’insufficienza, per non dire l’assenza, di una politica per l’immigrazione europea degna di questo nome.

Gli egoismi nazionali, assecondati da forze politiche che si ispirano, quasi dappertutto, a logiche di breve periodo e di chiusure corporative, stanno facendo dell’Europa una semplice espressione geografica, la quale da una parte tradisce in modo clamoroso le  migliori conquiste culturali della sua storia e, dall’altra, manifesta un deficit di lungimiranza che potrebbe, alla lunga, rivelarsi disastroso per l’intero continente.

Basti pensare, trascurando il resto, alla sola previsione demografica, che vede al 2050 l’Africa raddoppiare la popolazione. Con l’Africa subsahariana che passerà dagli attuali 962 milioni a 2.132 milioni di persone in età lavorativa (a fronte di un calo in Europa di 112,3 milioni).

Numeri da brivido, a distanza di pochi decenni!

Possibile che, anche solo da questa prospettiva, non si avverta il bisogno urgente di elaborare idee di largo respiro che prevengano situazioni ingestibili? Possibile che non si colga la miopia di egoismi nazionali e di obiettivi di breve durata, destinati ad essere inevitabilmente travolti?

Possibile che l’Europa non avverta il bisogno di risollevarsi dalla pochezza strategica in cui è precipitata?

A questa domanda mi sento di rispondere solo dicendo che a tornare in campo è chiamata la politica, quella con la “P” maiuscola. Che passa attraverso il cuore e l’intelligenza degli uomini.

 

Ci troviamo attualmente in una situazione di fermento e allo stesso tempo di stallo che prelude alla nascita del nuovo governo. Che peso avrà secondo lei la questione dei migranti in tutto questo? E quali scenari prospetta?

A vedere le forze in campo, in particolare quelle che hanno riscosso maggiore consenso, credo che la questione dei migranti dovrebbe scivolare su un registro di cosiddetto “maggior rigore” e di “minore apertura”. Dovrebbero affermarsi ricette del tipo “aiutarli a casa loro” piuttosto che azioni di “rimpatrio” o altro ancora. Tutte ricette da campagna elettorale che non credo sortiranno grandi effetti reali. Al di là della retorica, resterà in campo la grande questione di un fenomeno che va oltre la contingenza e le banalità della propaganda. E che rimanda a progetti e programmi, nazionali e sovranazionali, ad elaborare i quali, con qualche probabilità di successo peraltro non immediato, sono chiamati coloro che hanno chiare le ragioni di fondo non transeunti per cui il fenomeno migratorio bussa alle nostre porte e, tra essi, quanti percepiscono con intelligenza e onestà intellettuale la complessità di problemi, e di risposte possibili, che i movimenti migratori pongono al nostro pianeta, sempre più destinato a diventare “villaggio globale”.