Cresci nel veleno o muori nella nostalgia: il segreto del fungo nero di Chernobyl

Anche nel luogo più tossico del pianeta, qualcosa ha deciso di vivere. Così possiamo fare anche noi.

di Francesco Mazzarella

C’è un fungo che vive dove nessun altro essere vivente dovrebbe esistere. È nero, silenzioso, umile. Cresce sulle pareti morte di uno dei luoghi più radioattivi della Terra: il reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl. Un simbolo del disastro, e al tempo stesso, un miracolo di adattamento. Perché quel fungo, che si nutre di radiazioni e prospera dove l’umanità ha perso, ci racconta qualcosa di profondo: che anche nei luoghi più tossici si può ancora crescere.

In un mondo che cambia troppo in fretta, che spesso ferisce, tradisce, delude, il “fungo nero di Chernobyl” diventa una metafora potente della resilienza: la capacità di non solo sopravvivere, ma trasformare il dolore in forza, il veleno in nutrimento, l’oscurità in vita.

Chernobyl è, nell’immaginario collettivo, un punto senza ritorno. Un confine tragico tra ciò che era e ciò che non sarà mai più. Ma nel cuore di quell’inferno, la natura ha trovato un modo per riscrivere le regole. Il fungo nero non si è arreso: ha assorbito l’orrore e ne ha fatto energia.

La nostra vita è piena di Chernobyl personali. Fratture, fallimenti, perdite. Ci sono parole che ci contaminano per anni, esperienze che avvelenano il nostro presente, eventi che esplodono dentro di noi e lasciano silenzi radioattivi. Eppure, come il fungo, possiamo imparare ad assorbire anche ciò che ci distrugge, e a utilizzarlo per risorgere.

Resilienza non è resistere impassibili. Non è forza bruta. È adattamento consapevole, è capacità di riorganizzare la propria struttura profonda per affrontare il nuovo paesaggio interiore e continuare a crescere.

Il fungo nero si è adattato a un ambiente tossico sviluppando una straordinaria caratteristica: la radiosintesi. Come le piante usano la luce solare per vivere, lui usa la radiazione nucleare. È diventato ciò che serve per continuare ad esistere. Ha trasformato la minaccia in risorsa. Non ha chiesto che il mondo tornasse normale: ha creato una nuova normalità.

Noi, troppo spesso, rimaniamo bloccati nella nostalgia di ciò che eravamo prima dell’esplosione. “Vorrei tornare com’ero.” “Se solo non fosse accaduto.” “Non sarò mai più la stessa persona.” Ma forse non dobbiamo tornare indietro. Forse dobbiamo, come il fungo, accettare la mutazione. Sviluppare nuovi modi per sopravvivere. Cambiare forma, colore, struttura, pensiero.

La resilienza è accettare che la zona di esclusione è diventata casa, e trovare un modo per costruirci vita.

La forza del fungo sta nella melanina. Quel pigmento nero, che protegge e converte l’energia letale in energia utile. Anche noi abbiamo “melanine dell’anima”: la pazienza, la spiritualità, la consapevolezza, il perdono. Sono le risorse interne che filtrano il veleno e lo trasformano in energia nuova.

C’è chi ha attraversato lutti, tradimenti, guerre, malattie. C’è chi ha perso tutto. Ma alcuni – nonostante tutto – sorridono ancora, amano ancora, costruiscono ancora. Non perché il mondo sia tornato buono, ma perché dentro di loro è nata una melanina invisibile: la capacità di rendere vivibile anche ciò che sembrava invivibile.

Il fungo nero non si è solo adattato: ha iniziato a diffondersi. Le sue spore si sono propagate nei laboratori, nello spazio (sulla ISS!), nei sogni degli scienziati. Oggi viene studiato come potenziale scudo contro le radiazioni cosmiche, persino come alleato per future colonie su Marte.

Che insegnamento incredibile: ciò che era nato nel cuore di un disastro, oggi è strumento di salvezza per l’umanità.

La resilienza non è mai solo individuale. Chi resiste e si trasforma, semina. Diventa testimonianza vivente. Chi affronta il proprio dolore con dignità e coraggio offre un sentiero agli altri. Le sue “spore” sono parole, gesti, silenzi che illuminano.

Viviamo in un mondo carico di radiazioni emotive, relazionali, spirituali. Un mondo dove i social amplificano l’odio, dove l’incertezza è pane quotidiano, dove le guerre sono sempre troppo vicine. Non possiamo cambiare tutto. Ma possiamo mutare il nostro modo di stare nel mondo.

Il fungo nero non chiede alla radiazione di smettere. La abbraccia. La filtra. La integra. Così anche noi possiamo imparare a non aspettare che tutto sia perfetto per vivere: possiamo vivere bene anche nelle imperfezioni, nelle ferite, nelle assenze.

Nel Giappone c’è un concetto profondo chiamato kintsugi: l’arte di riparare le ceramiche rotte con l’oro, rendendo le fratture parte del valore dell’oggetto. Non si nasconde la crepa: la si celebra.

Il fungo nero è la forma biologica del kintsugi. È la crepa diventata opera d’arte. È la frattura diventata funzionale. È il veleno che diventa forza.

Essere resilienti significa smettere di nascondere le cicatrici, e iniziare a riconoscerle come segni sacri della nostra capacità di trasformazione. Ogni volta che siamo caduti e ci siamo rialzati, abbiamo mutato la nostra melanina interiore.

Resilienza è fare pace con il nemico invisibile. Con il tempo che passa. Con le persone che ci lasciano. Con le crisi interiori. Non per rassegnazione, ma per trasformazione.

Il fungo nero non si è rassegnato alla radiazione: l’ha abbracciata, l’ha riscritta, l’ha convertita. È diventato altro. E noi?

Possiamo farlo anche noi, ogni giorno. Quando ci adattiamo a una perdita, quando riscopriamo una forza che non sapevamo di avere, quando decidiamo di non odiare chi ci ha feriti. Quando scopriamo che il senso non è in ciò che accade, ma in ciò che scegliamo di farne.

Essere come il fungo nero di Chernobyl non è un’esortazione strana o poetica. È una scelta concreta. È decidere che: anche se il mondo ti crolla addosso, tu puoi ancora crescere; anche se sei circondato da tossicità, tu puoi diventare protezione; anche se ti porti dentro dolore, tu puoi trasformarlo in energia.

Non si tratta di ottimismo cieco. Ma di realismo spirituale. Di quella parte di noi che, come il fungo, non smette mai di cercare vita, anche nei deserti. Anche dopo l’esplosione.

Ognuno di noi porta dentro un reattore spento. Un luogo che ha visto dolore, delusione, fallimento. Ma la natura ci insegna che anche lì può germogliare qualcosa. Che la resilienza è una forma di fede laica: la fede nel fatto che la vita, comunque, si apre un varco.

E quando saremo capaci di guardare i nostri Chernobyl interiori senza paura, e di dire: “Qui posso ancora vivere”, allora saremo davvero liberi.

Perché il segreto non è evitare la radiazione.

Il segreto è imparare a farci luce.

Stampa Articolo Stampa Articolo